Pubblichiamo il primo DOSSIER 2016 curato da Maurizio Qualiano e pubblicato sul n.1 del 2016 del Consulente Familiare.
Supplemento staccabile al numero 1 del 2016
de Il Consulente Familiare
gennaio – marzo 2016
DOSSIER
LA PRIVACY E IL
SEGRETO PROFESSIONALE
A cura di Maurizio
Qualiano
In questo primo
dossier del 2016 parleremo di argomenti molto delicati ed importanti per il
Consulente Familiare che, nell’esercizio della sua professione, sia in forma
libero professionale sia in forma volontaria e gratuita, ne viene continuamente
a contatto e da cui scaturiscono obblighi e doveri..
La riservatezza è un
cardine fondamentale delle professioni sanitarie e delle professioni di aiuto,
in quanto garantisce gli utenti e i clienti sulla segretezza dei dati e dei
problemi che questi chiedono al professionista di risolvere o alleviare.
Le legislazioni di
tutti i paesi sono intervenute, prima o poi, per disciplinare il segreto
professionale e per tutelare la sfera personale del cittadino.
Quest’ultima è stata
oggetto di maggiore attenzione e tutela, in tempi più recenti, a causa delle
moderne tecniche di divulgazione delle informazioni e di diffusione delle
notizie.
Riservatezza riguarda una sfera più ampia di
quella del segreto, una sfera di riserbo, di discrezione su fatti e notizie
che, pur se possono essere conosciuti da un soggetto, non possono essere
rivelati ad altri.
Segreto è ciò che non deve essere divulgato e, in particolare, quel fatto o
notizia, non noti, che un soggetto vuole sottrarre alla conoscenza di
altri. In genere comprende notizie concernenti la sfera personale: stato di
salute, famiglia, preferenze sessuali, credo religioso, ideologia politica,
ecc.
Privacy insieme di opinioni, azioni,
comportamenti, preferenze, informazioni personali, su cui l’interessato intende mantenere un
controllo esclusivo, non solo per garantirne la riservatezza ma per
assicurarsi una piena libertà di scelta.
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Il segreto
professionale, assoluto e inderogabile nella sua sacralità, rappresenta anche
negli ordinamenti moderni un fondamentale obbligo, sia etico che giuridico: la
violazione del segreto professionale è, infatti, sanzionata dal Codice Penale.
E, quindi, si dovrà aver cura di attuare tutte quelle procedure atte a
salvaguardare la privacy del cittadino utente.
Si dovrà evitare
l'esposizione pubblica della documentazione oppure l'esposizione pubblica dei
nomi degli utenti, ovvero dare l'informazione senza la previa autorizzazione del
diretto interessato.
Nella salvaguardia
del segreto professionale c’è un altro aspetto da considerare: sono i principi
dettati dal Codice deontologico.
Ogni Codice
Deontologico contiene le esigenze etiche di una professione, ne costituisce l’elemento
di identità, è lo strumento attraverso il quale un professionista si presenta
alla società e, contestualmente, è lo strumento che orienta e guida il
professionista nelle scelte di comportamento e indica i criteri etici delle
azioni professionali.
Quindi qual’è la differenza tra
segreto professionale e tutela della privacy?
Il segreto
professionale è tradizionalmente uno dei doveri fondamentali di qualsiasi
professionista ed è una delle regole essenziali di ogni deontologia.
La normativa di tutela
della privacy rappresenta un rafforzamento dei compiti che il professionista, e
non solo lui, è tenuto a osservare per quanto riguarda la tutela dei dati e
delle notizie relative ai propri utenti.
In questo articolo
proveremo ad analizzare la privacy e il segreto professionale nell’ottica della
funzione e dell’attività del Consulente familiare, consci tuttavia che non è
possibile essere esaustivi data la vastità dell’argomento.
LA PRIVACY
Da tempo la privacy
ha assunto un significato ampio e contenitivo: non è solo la difesa della riservatezza
della sfera privata, ma è la possibilità di ciascuno di controllare l'uso delle
informazioni che lo riguardano, in quanto, nelle società attuali, queste
informazioni rappresentano elementi fondamentali nell'organizzazione sociale ed
economica.
Il problema
dell'ammissibilità di una tutela della riservatezza (distinta e complementare rispetto
alla tutela dell'onore e della reputazione), come garanzia del riserbo e dell'intimità
della vita privata, considerati come interessi direttamente meritevoli di protezione,
è stato per lunghi anni oggetto di discussione che ha coinvolto la società, la
politica e la dottrina.
Finché la Legge n.
675 del 31 dicembre 1996, Tutela delle persone e di altri soggetti
rispetto al trattamento dei dati personali, meglio conosciuta come la legge sulla privacy, ha introdotto
nel nostro ordinamento un nuovo precetto legislativo, quello di garantire che
il trattamento dei dati personali si
svolga nel rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali e della dignità dei
soggetti, e ha disposto numerosi obblighi e vincoli nella trattazione dei dati
personali ed identificativi delle persone, a tutela e garanzia della privacy
del cittadino .
La normativa non
riguarda solo le banche dati vere e
proprie, ma tutte quelle situazioni in cui vengono raccolti e conservati i dati
delle persone, per qualsiasi fine, intendendosi per “trattamento” qualsiasi
operazione, svolta con strumenti manuali o elettronici, avente ad oggetto dati
di persone fisiche o di enti collettivi.
Inoltre la legge parifica
il regime dei dati relativi alle persone fisiche a quello delle informazioni
concernenti le persone giuridiche, pubbliche o private, e riconosce che il
trattamento dei dati personali, raccolti per qualsiasi motivo, è lecito, sempre
che siano rispettati gli adempimenti formali stabiliti, che hanno lo scopo,
giova ripeterlo, di tutelare la persona rispetto all’intrusione di un terzo
nella sua vita privata.
Quindi ne consegue
che ogni persona detiene un diritto individuale alla protezione dei dati
personali, perchè "Chiunque ha diritto alla protezione dei dati che lo
riguardano".
Il diritto alla
protezione dei dati personali, obbliga i soggetti che li trattano, a garantirne
la protezione.
Il
Consulente Familiare, oltre a serbare il segreto su tutto ciò che gli viene
confidato o che può conoscere in ragione della sua professione, deve tutelare
la riservatezza dei suoi clienti e raccogliere e conservare i dati personali
con le garanzie richieste dalla legge. Sia che eserciti in libera professione
sia che sia inserito in una struttura, deve personalmente garantire la tutela
della riservatezza, accertandosi direttamente che il trattamento dei dati
personali avvenga nel rispetto della normativa.
L’obbligo
di riservatezza sui contenuti degli incontri professionali, nonché sulla
documentazione ad essi attinente, deve essere tenuto nei confronti di tutti
indistintamente, siano essi privati cittadini, autorità pubbliche o colleghi.
Ma quali dati vanno
protetti? Qual è quindi l’oggetto della tutela della privacy? La legge indica
con precisione quali dati vanno protetti e trattati in modo speciale, operando
una prima fondamentale distinzione dei dati in due grandi categorie: i dati
personali e i dati sensibili. Distinzione che comporta anche una diversa
disciplina di trattamento e di sanzioni in caso di violazione.
I DATI
PERSONALI
I dati personali
consistono in qualunque informazione relativa a persona fisica, persona
giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche
indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi
compreso un numero di identificazione personale. Possiamo definirle: le
‘generalità’, nome, data e luogo di nascita, residenza, stato civile ecc
I DATI
SENSIBILI
Sono dati personali
idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose,
filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti,
sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico,
politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di
salute e la vita sessuale. Da sottolineare che l’elenco dei dati sensibili è
chiuso e non estensibile per analogia.
Ma affinchè la
raccolta dei dati personali sia lecita, la legge dispone che è necessario acquisire
il consenso scritto del cittadino/utente che autorizza a raccogliere, registrare
e utilizzare i suoi dati personali. Il
consenso deve essere esplicito, e non ‘routinario’ ma, utilizzando la nuova
terminologia, il consenso deve essere informato.
Cioè il cittadino deve essere messo a conoscenza che in quel momento si stanno
raccogliendo i suoi dati personali, che la conservazione sarà effettuata a sua
tutela e a norma di legge, che l’utilizzo dei dati è esclusivamente legato alle
finalità professionali e che in ogni momento può disporne la cancellazione e,
quindi, pretendere l’anonimato.
Quando, poi, si
tratta di minori è necessaria l’autorizzazione del genitore che ne esercita la potestà
e, nel caso in cui questa manchi, del giudice tutelare.
IL CONTRATTO DI CONSULENZA E CONSENSO
INFORMATO AICCEF
(estratto dall’articolo pubblicato sul
n. 2 del 2015 de Il Consulente Familiare)
La prima cosa che una persona, che si presenta da un
professionista, vuole e deve sapere è quale disciplina, teoria o tecnica svolge
il professionista stesso e cosa si può aspettare di ricevere dall’attività
professionale di chi ha deciso di interpellare.
E la prima cosa che deve fare il professionista che
riceve per la prima volta un cliente, a prescindere dalla targhetta sulla
parete, dalla pubblicità su internet o dalla struttura in cui si trova ad
esercitare, è quello di informare la persona che gli sta davanti della propria
attività, della disciplina che pratica o impartisce, dei titoli che gli
consentono di esplicare quella specifica attività e dei diritti di legge che
egli garantirà al cliente stesso.
Accertato che il cliente-consumatore ha diritto di
sapere, ne deriva che il professionista ha il dovere di informare. Una
informazione orale e scritta. Perché il mezzo da cui risulta e si dimostra che
il professionista ha informato il cliente, deve essere chiaro, trasparente,
esaustivo e rispettoso della normativa.
Il Contratto di Consulenza e Consenso informato che ha strutturato l’AICCeF e che viene
adottato dai Consulenti Familiari, tende a raggiungere questi risultati ed è
predisposto in modo da rispondere a molteplici esigenze.
È, prima di tutto, un contratto professionale perché
sancisce l’accordo tra professionista e cliente per instaurare una prestazione
professionale, non importa se onerosa o gratuita. Il cliente, che trascrive le
sue generalità sul modulo, incarica il Consulente Familiare di svolgere una
prestazione per lui, e perfeziona, con la firma, un contratto di natura
professionale. “Affidandosi al Consulente…“ è scritto sul modulo, che è una
formula quasi romantica, in cui si esprime la fiducia del cliente di mettersi
nelle mani del Consulente che lo guiderà per percorsi conosciuti o di cui il
cliente dovrà essere chiaramente informato.
In tale accordo le parti devono risultare chiare e
identificabili, per cui è sempre bene fare indicare, oltre al nome e cognome,
anche data e luogo di nascita del richiedente. Se tali dati non sono veritieri
(alle volte capita che il cliente sia eccessivamente riservato e timoroso di
lasciare i suoi dati), questo non inficia il contratto, che mantiene il suo
contenuto e la sua essenza, né ascrive al professionista alcuna responsabilità
oppure obbligo di accertamento.
Dal canto suo il Consulente deve indicare il proprio
nominativo, la qualifica professionale che gli permette di esercitare
quell’attività e deve informare il cliente di una serie di circostanze importanti
per la prosecuzione della relazione d’aiuto.
In primis di essere iscritto ad una Associazione
professionale che ne garantisce e tutela la professione (punto 1). Questa
indicazione, riservata dalla legge ai professionisti non appartenenti ad ordini
o collegi, garantisce al cliente che egli segue i principi e le regole di un
Codice Deontologico specifico ed è tutelato e ‘controllato’ da
un’organizzazione che ha come scopo sociale questa funzione.
Il Contratto prosegue con la illustrazione di cosa è la
Consulenza Familiare (p.2), in che cosa consista la relazione d’aiuto che si
sta attivando e soprattutto a chiarire che la Consulenza non è una terapia, non
si occupa di patologie e non prevede farmaci. E’ un punto fondamentale nel
primo rapporto col cliente, perché chiarisce l’attività che si sta per
intraprendere e sgombra il campo da equivoci o eventuali fraintendimenti. È una
circostanza che il Consulente avrà cura di spiegare chiaramente e
dettagliatamente a voce prima di intraprendere il percorso.
Così come spiegherà che sarà sua cura informare della
prevedibile durata della Consulenza (punto 5) e di come si concluderà il
percorso, in modo naturale o, se lo richiede il cliente in modo anticipato
(punto 7).
Egli deve, poi, indicare che la sua attività è
disciplinata da una legge dello Stato la legge 14 gennaio 2013, n.4, e questa
indicazione rappresenta un obbligo cogente, il cui adempimento è anche
sanzionato.
Proseguendo nell’esame del modulo, arriviamo al punto in
cui esso informa che il Consulente è tenuto al segreto professionale. Il
segreto professionale è un obbligo assoluto e inderogabile nella sua sacralità,
che rappresenta un fondamentale impegno etico, deontologico e giuridico. Etico
perché divulgare segreti appresi durante relazioni d’aiuto è contrario alla
morale ed ai principi sociali; deontologico perché è chiaramente stabilito come
comportamento professionale nel Codice Deontologico del Consulente Familiare;
giuridico perché sancito dal Codice penale e dalle leggi sulla riservatezza dei
dati personali.
Punto importante è quello in cui si parla di soggetti
minorenni o incapaci (punto 6). Non è pacifico né unanimemente accettato, tra i
Consulenti Familiari, che le consulenze ai minori si possano effettuare solo se
vi è l’autorizzazione dei genitori, o di chi ne ha la tutela. Si pensa, a
volte, che non trattandosi di pratiche ‘sanitarie’, la relazione di aiuto possa
essere intrapresa anche senza, o a volte anche ‘contro’, il parere dei
genitori. Bisogna stare molto attenti quando si tratta di minori perché la
legge è molto severa in materia. Ciò non toglie che in casi di emergenza (un
colloquio ‘urgente’) si possa dare assistenza a un minore, ma poi per
proseguire in un percorso di consulenza, è caldamente consigliato di farsi
rilasciare l’autorizzazione dai genitori (e se viene adombrato un pericolo per
l’incolumità del minore in ambito familiare, è buona regola rivolgersi ai
servizi sociali).
I punti 8, 9 e 10 riguardano il trattamento dei dati
personali e l’informativa obbligatoria che ogni professionista deve effettuare
ai propri clienti, per consentire loro di dare un consenso informato allo
stesso trattamento. Il titolare del trattamento è la persona responsabile della
raccolta e della conservazione dei dati personali dei clienti e se il
Consulente è libero professionista indicherà se stesso. Se esercita presso una
struttura pubblica o privata, il modulo del Consenso Informato indicherà o il legale rappresentante dell’ente
o il funzionario delegato come responsabile al trattamento dei dati.
Non è il caso di fare, in questa sede, la differenza tra
dati personali e dati sensibili, perché la procedura per la loro raccolta,
conservazione e trasmissione è notevolmente diversa. Accontentiamoci di dire
che, ai fini della consulenza e della formazione dell’archivio dei Consulenti o
dei Consultori, è sufficiente raccogliere solo i dati personali.
Infine la doppia firma del cliente, una per accettazione
dell’inizio del contratto professionale e una per il consenso al trattamento
dei dati personali, di cui è stato esaurientemente informato.
Con queste due firme si è perfezionato formalmente il
contratto di consulenza e consenso informato.
Abbiamo detto perfezionato “formalmente” perché il
Consulente, come impegno deontologico, si deve accertare che il cliente non abbia
firmato un modulo senza conoscerne il contenuto, fidandosi soltanto delle
persone a cui si è rivolto. È bene non sottoporgli soltanto un modulo da
firmare, ma spiegare, con pazienza e dovizia di particolari, di che cosa si
tratta, su cosa deve essere informato e perché deve apporre quelle firme.
Sarà
una soddisfazione per noi e per lui. MQ
La normativa sulla
privacy precisa in modo dettagliato le modalità di svolgimento delle attività
legate alla protezione dei dati personali, e noi ci soffermeremo su di esse,
con uno sguardo alla sfera di interesse del Consulente familiare.
LA FASE DEL
TRATTAMENTO
E’ quella fase in cui
qualsiasi operazione, o complesso di operazioni, effettuate anche senza
l'ausilio di strumenti elettronici, concerne la raccolta, la registrazione,
l'organizzazione, la conservazione, la consultazione, l'elaborazione,
l'utilizzo, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione di dati personali,
anche se non registrati in una banca dati.
La raccolta dei dati personali del cliente è la prima
attività che si svolge prima di una consulenza o di un primo colloquio. Il
Consulente lo farà mediante il Contratto di consulenza e consenso informato,
che abbiamo visto sopra. È sempre opportuno accertarsi che i supporti cartacei
seguano percorsi dedicati e anonimi, che non siano cioè visibili da chiunque, e
che vengano conservati, dopo il trattamento, in archivi fisici chiusi ed a
prova di apertura volontaria o accidentale. Gli archivi informatici devono
essere protetti da password, affidate solo ai soggetti previsti dalla legge.
IL TITOLARE
DEL TRATTAMENTO
Può essere la persona
fisica, la pubblica amministrazione e qualsiasi altro ente, cui competono le
decisioni in ordine alle modalità e alle finalità del trattamento di dati
personali e agli strumenti utilizzati, ivi compreso il profilo della sicurezza.
Nel caso in cui il trattamento è effettuato da una persona giuridica, per
esempio un’associazione, il titolare del trattamento è l'entità nel suo
complesso, che si concretizza nel legale rappresentante.
In caso di professione libera il titolare è il Consulente
che, se non ha personale dipendente che lo supporta, riveste anche la figura
del responsabile del trattamento e di incaricato. In caso di esercizio presso
una struttura, il titolare è il legale rappresentante dell’ente a cui fa capo
la struttura.
IL
RESPONSABILE DEL TRATTAMENTO
E’ la persona fisica,
ma anche la persona giuridica, preposta dal titolare al trattamento dei dati
personali. Il Responsabile è una figura che può essere individuata facoltativamente
dal titolare, con precisa indicazione delle modalità di assegnazione. In questo
caso la responsabilità del trattamento è in solido tra titolare e responsabile.
Nella libera professione, come detto sopra, non ricorre
questa figura, mentre nelle strutture è frequente che il presidente di un’Associazione,
titolare del trattamento secondo la legge, nomini, per esempio, il direttore
del consultorio come responsabile del trattamento. E’ necessario, tuttavia, che
tale nomina venga fatta per iscritto.
GLI INCARICATI
Sono le persone
fisiche autorizzate a compiere operazioni di trattamento dal titolare o dal
responsabile. Tali soggetti devono essere individuati per iscritto e sono gli
unici a poter compiere operazioni di trattamento sui dati personali. Gli incaricati, inoltre, operano sotto la
diretta autorità del titolare o del responsabile, attenendosi alle istruzioni
impartite.
Se nella libera professione questa figura di solito
manca, nelle strutture di consulenza sono frequenti ed orbitano in segreteria. Anche
per loro è valido il discorso dell’incarico scritto, del rispetto dei
protocolli di sicurezza e della riservatezza del loro lavoro.
LE MISURE DI SICUREZZA
Le misure di sicurezza per la riservatezza dei dati personali sono dei provvedimenti
tecnici, logistici e organizzativi programmati e attuati dal titolare o dal
responsabile del trattamento, per l’effettiva tutela dei dati personali
raccolti.
Si distinguono in:
- Misure
di sicurezza minime, tese a ridurre i rischi di distruzione o
perdita di dati, di accesso non autorizzato o di trattamento non conforme alla
normativa, che devono essere periodicamente aggiornate, in rapporto al
progresso tecnologico e alla tipologia dei rischi. Sono
misure di sicurezza minime; la conservazione dei supporti cartacei su cui sono
raccolti i dati personali in armadi metallici a chiusura, le cui chiavi sono
affidate agli incaricati del trattamento, con incarico scritto; l’accesso al
data base, in caso di archivio informatico, consentito ai soli incaricati con
password individuale.
- Misure
di sicurezza idonee: sono destinate a ridurre i rischi di violare la
privacy o di divulgare dati personali, anche involontariamente. Sono da
individuarsi in base alle soluzioni tecniche concretamente disponibili e alle esigenze
peculiari di ogni ambito.
Da carenze di tali misure possono
conseguire addebiti di responsabilità civile.
È opportuno, per il Consulente Familiare, parlare dei
clienti sempre in forma anonima e non identificabile, non usare né nome né
cognome, né tantomeno termini che possano fare identificare il singolo o la
coppia in consulenza. Evitare, quindi, di parlare dei casi in consulenza per
telefono o in presenza di persone che non sono addette alla struttura o non
siano incaricati del trattamento. Buona
regola attribuire ad ogni consulenza un numero di protocollo, o altro codice
identificativo, e identificare le persone sempre con questo numero o codice. Anche
nelle discussioni di equipe è opportuno adottare queste accortezze.
GESTIONE DEI DATI SENSIBILI
Abbiamo detto che
affinché il trattamento dei dati si svolga secondo le regole dettate dalla
legge è necessario il passaggio fondamentale
dell’informativa da dare all’interessato, titolare dei dati personali, il quale
potrà, in questo modo, conoscere tutti i dettagli circa il trattamento,
compresi l’ambito e la durata dello stesso.
Particolari formalità
di raccolta ed utilizzazione sono previste per i cosiddetti “dati sensibili”. Le informazioni sulla
salute di un paziente sono utili per la cura del soggetto, ma possono rivelare
anche altri dati sensibili ed il trattamento di questi dati deve essere
conforme alla legge, altrimenti il rischio è quello di violare il diritto di
riservatezza. Quando si fa riferimento a dati sensibili, la normativa della
privacy ha una portata maggiore rispetto al segreto professionale che deve
mantenere il professionista. Per questi dati, infatti, il trattamento svolto da
soggetti privati è possibile solo con il consenso scritto dell’interessato e
con la contemporanea autorizzazione del Garante per la privacy. L’Autorità Garante per la Privacy è una figura
pubblica di controllo istituita dalla legge, che ha poteri di vigilanza,
controllo, regolamentazione della materia, nonché doveri di informazioni nei
confronti dell’opinione pubblica.
È quindi il Garante
per la privacy a rilasciare l’’Autorizzazione al trattamento dei dati idonei a rivelare
lo stato di salute e la vita sessuale. L’autorizzazione viene, però, rilasciata
in via generale e preventiva, senza che i professionisti interessati ne debbano
fare richiesta. La ratio di tale autorizzazione appare chiara: consentire
lo svolgimento del proprio lavoro utilizzando e rivelando, nella sola misura strettamente
indispensabile alla corretta prestazione professionale, alcune informazioni sullo
stato di salute fisico e psichico dell’utente che, altrimenti, sarebbero
protette, sia dalla legge 675/96 che dal più ampio dovere di segreto
professionale.
Interessante quesito
è quello di stabilire se il Consulente Familiare possa raccogliere i dati
sensibili, e, per tanto, essere assoggettato alla specifica disciplina.
Il quesito nasce dalla rilevata mancanza nel Contratto di
consulenza e Consenso informato dell’Aiccef, di un'autorizzazione specifica
dell’interessato, alla raccolta e al trattamento dei "dati sensibili”, e,
di conseguenza, una carenza di legittimazione a trasferire tali dati, in forma
aggregata, a terzi (nel quesito esaminato si faceva riferimento alle
statistiche dell’Ucipem). Per dare soluzione al quesito, va tenuto conto che il
Contratto di consulenza rappresenta l'accordo tra il Cliente e il Consulente
della coppia e della famiglia, iscritto all'AICCeF e disciplinato dalla legge
n. 4 del 2013, per iniziare un rapporto professionale di 'consulenza familiare'.
I dati che vengono, quindi, raccolti con il modello, nel rispetto della legge
sulla privacy, sono i dati personali, quindi le generalità e i dati identificativi
della persona, non altro. Non sembra, infatti, necessario raccogliere i dati
personali ‘sensibili’.
Ricordiamo che i dati sensibili indicati dalla legge sulla
privacy sono i dati idonei a rilevare:
·
l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale,
L'elenco, come abbiamo detto sopra, è chiuso e non estensibile
per analogia. E non è utile né opportuno,
ai fini professionali, che tali dati siano raccolti e trascritti dal consulente.
Diverso è il ragionamento da fare sulle informazioni, relative
allo stato di salute o alla vita sessuale di un cliente o di una coppia, che il
Consulente condivide in equipe o in supervisione. Queste informazioni (anche se
sono oggetto di discussione collegiale non vanno collegate ad alcuna persona) devono
restare necessariamente anonime (cioè non attribuibili a persone fisiche) e non sono suscettibili di alcun ‘trattamento’.
IL
SEGRETO PROFESSIONALE
Il segreto professionale
ha da sempre riguardato tutto ciò che al professionista è stato confidato o che
questi ha potuto conoscere in ragione della sua professione.
Il suo ambito
estensivo, quindi, è molto più stringente della semplice riservatezza, riguardando
gli aspetti conoscitivi e le informazioni relative alla sfera privata
dell’utente, di cui il professionista può venire specificamente a conoscenza a
motivo della sua professione oppure perchè confidate spontaneamente e
riservatamente dal cliente.
Ma qual è la definizione di segreto professionale?
Il segreto, in senso letterale, è ciò
che deve essere tenuto nascosto.
La Suprema Corte di
Cassazione (con sentenza n. 2393 del 10 gennaio 1967) ha affermato che, in senso giuridico, il segreto è ogni fatto
che, per disposizione di legge o per decisione di una volontà giuridicamente
autorizzata è destinato a rimanere nascosto a qualsiasi persona diversa dal
legittimo depositario.
La consegna del
segreto costituisce da sempre un aspetto della fisionomia di qualsiasi professionista
che ha l'opportunità di apprendere, vedere o semplicemente intuire aspetti della
sfera più intima dell’utente o dei suoi familiari, non solo per rispetto
dell'altrui privacy, ma anche per garantire l'esercizio di una attività
professionale libera da sospetti o riserve. Il segreto professionale è
l’obbligo a non rivelare le informazioni aventi natura di segreto, apprese
all’interno del rapporto fiduciario.
Ed ha un fondamento:
Etico, perché legato al rispetto della persona;
Deontologico, perché sancito come
norma di comportamento professionale in ogni
Codice Deontologico con un forte richiamo ad
un obbligo di riservatezza;
Giuridico, in quanto sancito dal
Codice Penale del 1942 e dalla Legge
675/96 sulla
privacy.
Il segreto
professionale, quindi, assume massima rilevanza sia da un punto di vista deontologico
(dovere inerente al principio di segretezza, che impone alla coscienza del professionista
di non rivelare ciò che gli è stato confidato o che abbia appreso per ragioni
professionali) sia da un punto di vista giuridico (la rivelazione
del segreto senza giusta causa è un reato perseguito dal codice penale).
Possibili modalità di
acquisizione e rivelazione
Il professionista,
come abbiamo detto, può venire a conoscenza di informazioni riservate del
cliente in modo diretto (es. raccogliendo l’anamnesi, o esaminando i
risultati di esami e test) oppure in modo indiretto (mediante le
confidenze ricevute dal cliente o dai suoi familiari). Il Consulente familiare
soltanto in modo indiretto.
Confini del Segreto
professionale.
Il titolare del segreto è solo il cliente,
che è l’unico a poterlo gestire.
Il professionista
deve mantenere il riserbo anche nei confronti dei familiari della persona in
consulenza, la quale potrebbe avere interesse a tenere celati taluni fatti
della sua vita privata.
Il professionista non
è tenuto a rivelare i segreti del minore neanche ai genitori oppure al tutore e
non dovrà farlo, ove non lo ritenga opportuno (rivelazione resa nell’interesse
dell’assistito) o ne sia costretto, neanche all’Autorità giudiziaria.
A meno che non sia
necessario per salvaguardare un interesse superiore o la vita e la salute di un
terzo, come vedremo più avanti.
La rivelazione di
notizie riservate può essere fatta con parole, scritti, cenni, gesti o allusioni,
mettendone al corrente persone estranee al rapporto confidenziale: è
sufficiente la rivelazione a una sola persona per tradire il segreto.
NORME GIURIDICHE SUL SEGRETO PROFESSIONALE
La normativa penale del nostro ordinamento non disciplina il segreto
professionale ma se ne occupa soltanto per sanzionare la sua violazione.
In relazione ai soggetti che legittimamente vengono a conoscenza di
segreti, e li divulgano, il Codice penale opera una rilevante distinzione a
secondo del soggetto che diffonde il segreto. Da una parte sancisce la
Rivelazione dei segreti d’ufficio e dall’altra la Rivelazione del segreto
professionale,
Rivelazione di segreti d’ufficio Art. 326 c.p.: “Il pubblico ufficiale o la persona
incaricata di un pubblico servizio che, violando i doveri inerenti alle
funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie
di ufficio, le quali debbano rimanere segrete o ne agevola in qualsiasi modo la
conoscenza, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”.
Questo è un reato
cosiddetto ‘qualificato’, nel senso che lo può compiere soltanto chi riveste la
qualifica di pubblico ufficiale. E la legge stabilisce che sono pubblici
ufficiali, coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa,
giudiziaria o amministrativa". Ed, inoltre, che " la funzione
amministrativa è pubblica quando è disciplinata da norme di diritto pubblico ed
è caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della
pubblica amministrazione“. Quindi sono compresi tra questi soggetti anche i
professionisti che lavorano alle dipendenze di una pubblica amministrazione
(servizio sanitario, enti locali, consorzi pubblici ecc).
Il reato è
perseguibile d’ufficio, nel senso che l'autorità giudiziaria deve
immediatamente indagare il presunto colpevole non appena acquisisca la relativa
denuncia, indipendentemente dalla eventuale lesione di diritti di terzi.
Inoltre, l'azione avviata d'ufficio è irrevocabile, non è dunque possibile interromperla,
come avviene, invece, nel caso di remissione della querela.
Rivelazione di segreto professionale. Art. 622 c.p.: “Chiunque,
avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria
professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa ovvero lo
impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la
reclusione fino a un anno o con la multa da trenta euro a cinquecentosedici
euro. ..omissis.. Il delitto è punibile a querela della persona offesa”.
Il reato, non essendo qualificato, può essere compiuto da ‘chiunque’ si
trovi nelle condizioni di svolgere un ufficio o una professione. La ratio della
norma si rinviene nell’esigenza di salvaguardia dei rapporti professionali,
nonché nell’interesse pubblico a che il professionista preservi la segretezza
dei fatti di cui venga a conoscenza nell’esercizio del ruolo ricoperto. Quindi
oggetto
della condotta illecita è il segreto professionale, svelato o utilizzato, all'interno
del quale rientra anche il segreto bancario e quello giornalistico. Ma affinché
si perfezioni questo reato è necessario che siano presenti due presupposti:
-che sia stato
divulgato, senza giusta causa, un segreto appreso nell’esercizio di un ufficio
o di una professione;
-che tali notizie
segrete siano state utilizzate per acquisire un profitto, non necessariamente
di natura solo economica o patrimoniale, ma anche di un diverso vantaggio.
Affinchè il reato sia
perseguibile, tuttavia, è necessario che dal comportamento illecito della
divulgazione del segreto o del suo impiego con profitto, sia scaturito, o possa
essere scaturito, un danno. Per la sussistenza del reato il codice penale
ritiene sufficiente la potenzialità del danno della condotta del reo, non
richiedendo specificatamente che il danno sia reale o immediatamente evidente.
In tema di danno va
chiarito che, se la rivelazione del segreto non costituisce reato, vi
possono invece essere conseguenze in diritto civile, in quanto l’art. 2043 del
codice civile dispone l’obbligo di risarcimento in seguito a qualunque fatto
anche colposo che cagiona un danno ingiusto a terzi. Se quindi penalmente il
comportamento illecito può essere conseguente solo ad una condotta volontaria e
quindi di dolo del professionista, civilisticamente invece basta per far
nascere l’obbligo al risarcimento una condotta colposa, imprudente o
negligente.
La giusta causa
Abbiamo visto che il
reato dell’art.622 si perfeziona quando il professionista rivela un segreto senza giusta causa. La
disposizione in esame non chiarisce la nozione di “giusta causa”, che di
conseguenza è rimandata al generico concetto di giustizia ed alla valutazione
del giudice in ordine ai motivi che hanno condotto il soggetto a compiere
l'atto con riguardo alla liceità sia sotto il profilo etico sia sotto quello
sociale.
La
differenza tra il reato di Rivelazione di segreti d'ufficio (art. 326) ed
il reato di Rivelazione di segreto professionale (art.622), secondo la
Cassazione, risiede nella diversità della ratio incriminatrice: per il
primo la tutela della pubblica amministrazione e nel secondo la tutela
della libertà del singolo; nel tipo di qualificazione giuridica, reato di pericolo
l’uno, reato di danno l’altro; nelle condizioni di perseguibilità,
d’ufficio il primo e a querela di parte il secondo; ma soprattutto nel tipo di segreto, di cui è interdetta la
divulgazione.
Nell’ipotesi
dell'art. 326 c.p., deve riguardare notizie «di ufficio», quelle, cioè,
concernenti un atto o un fatto della pubblica amministrazione, nei diversi
aspetti delle funzioni legislativa, giudiziaria o amministrativa; mentre,
nella ipotesi dell'art. 622 c.p., deve essere riferito a notizie e
informazioni apprese «per ragioni di ufficio» e riflettenti situazioni
soggettive di privati e delle quali colui, che di esse è depositario in
virtù del suo status professionale (ufficio, professione o arte), deve
assicurare la riservatezza.
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Vi possono essere
occasioni in cui il segreto professionale può essere divulgato.
In primis l’autorizzazione
del titolare del segreto, una volta reso edotto delle conseguenze della
rivelazione. Essendo egli il soggetto il cui segreto la noma tutela, il suo
consenso elimina l’illiceità.
Va annotato,
tuttavia, che tra le motivazioni che costituiscono "giusta causa" di rivelazione
del segreto professionale rientra la possibilità di derogare alla norma,
laddove esista l'urgenza di salvaguardare la vita o la salute di terzi, anche
senza il consenso o con il diniego. dell'interessato, ma previa autorizzazione
del Garante per la protezione dei dati personali.
Esempio recente il caso
del giovane romano sieropositivo che, deliberatamente, ha contagiato sei donne
con rapporti sessuali non protetti, ed è stato divulgato il suo stato di salute
al fine di informare altre persone della possibilità del pericolo alla loro
salute.
Vanno poi annoverate,
tra le cause giustificative quelle che derivano dal diritto positivo e sono
costituite da norme imperative, giustificative e permissive.
le norme imperative impongono
di rendere noto il segreto in forza di una disposizione di legge che impone al
professionista il dovere di informativa mediante le denunce, i referti, i
rapporti, le relazioni e le certificazioni; oppure richiedono di riferire su
fatti riscontrati in occasione di perizie, consulenze tecniche, arbitrati o visite
varie;
le norme giustificative escludono
la punibilità perché eliminano l'antigiuridicità del fatto o fanno venir meno
la colpevolezza dell'autore della rivelazione.
Per esempio, non è
perseguibile penalmente il professionista che ha reso noto il segreto col consenso
del titolare, come abbiamo detto (art. 50 c.p.); oppure quando il
professionista è stato costretto con la violenza a quel comportamento (art. 46
c.p.), o è caduto in errore o è stato tratto in inganno, oppure si è trovato in uno stato di necessità o per
difendere la propria reputazione professionale;
le norme permissive si
riferiscono alla facoltà riconosciuta dall’art. 351 del c.p.p. di astenersi dal
testimoniare su fatti coperti dal segreto professionale, tanto nei processi
penali quanto nelle cause civili. L'astenersi
dalla testimonianza costituisce un diritto e non un obbligo, il quale è
pertanto libero di decidere se rendere o
non rendere la deposizione, valutandone l'opportunità secondo le circostanze e
assumendone la responsabilità. L'Autorità giudiziaria può a sua volta imporre
con ordinanza la deposizione del professionista, a cui questi deve sottostare,
ma, a parte ciò, la regola deontologica espressamente richiamata è quella di
non deporre mai su argomenti coperti dal segreto professionale.
Coinvolgimento del professionista
Per quanto riguarda
la possibilità per un professionista, in particolare delle professioni di
aiuto, di essere interessato da procedimenti giudiziari che coinvolgono i
propri clienti, e, alle volte, interpellato in merito, dobbiamo distingue due
diverse categorie: i procedimenti civili e i procedimenti penali.
- procedimenti
civili.
Nei giudizi civili, o
di magistratura volontaria, come le cause di separazione, di adozione, di
mantenimento, di affidamento ecc., può accadere che un avvocato di parte chiami
il professionista o per ottenere una relazione - dichiarazione sul percorso
consulenziale effettuato dal suo cliente o per invitarlo a testimoniare in
giudizio sui contenuti o gli obiettivi della consulenza, davanti al giudice.
Sappiamo che quanto
detto in consulenza è coperto dal segreto professionale, quindi solo
l'autorizzazione del cliente può liberare il professionista dall'obbligo della
riservatezza. E se il cliente è una coppia, solo i suoi componenti possono fornire
tale liberatoria. Una liberatoria autorizzativa a firma congiunta.
Il professionista, in
aderenza al Codice deontologico e al segreto professionale, può opporre
legittimamente l'impossibilità di divulgare quanto appreso nell'esercizio della
sua professione.
Tuttavia la richiesta
del legale del cliente o di uno dei due clienti, se si concretizza
l’autorizzazione come abbiamo detto sopra, può essere tranquillamente
soddisfatta dal professionista, anche se non è un suo obbligo.
L’autorizzazione del
cliente libera il professionista da qualsiasi responsabilità nei suoi confronti
e nei confronti della deontologia professionale.
- procedimenti penali.
Qualora coloro che rivestono
la qualifica di pubblico ufficiale o Incaricato di pubblico servizio (e che
siano professionisti, ciò che ci interessa) vengano a conoscenza di una notizia
di reato procedibile d’ufficio, sia su minore che su un adulto, hanno l’obbligo
di denuncia/referto alla competente Autorità Giudiziaria (art. 331 c.p.p.).
Tale obbligo prevale sull’obbligo al segreto professionale.
Un problema giuridico
attualmente irrisolto, riguarda il professionista sanitario, non pubblico
ufficiale, che, se nell’esercizio delle sue funzioni , viene a conoscenza di un
reato di danno alla persona, si trova in conflitto tra l’obbligo di denuncia e l’obbligo
al segreto professionale.
Per quanto riguarda la professione del Consulente
familiare (non pubblico ufficiale), in caso di notizie di reato raccolte
nell’esercizio della sua professione, possiamo sintetizzare i suoi obblighi in
questo modo:
· se le notizie, riferite da persona adulta riguardano se
stesso (abusi o maltrattamenti ricevuti) non vi è obbligo di segnalazione né
all’autorità giudiziaria né ai servizi sociali e opera l’obbligo al segreto
professionale;
· se le notizie, riferite da persona adulta un altro adulto
(abusi o maltrattamenti dati), non vi è obbligo di segnalazione né all’autorità
giudiziaria né ai servizi sociali e opera l’obbligo al segreto professionale;
· se le notizie riferite
da persona adulta riguardano un minore (abusi o maltrattamenti dati), non vi è
obbligo di segnalazione all’autorità giudiziaria e quindi in caso di omissione
della denuncia il Consulente non è perseguibile, tuttavia resta il problema
etico-morale della salvaguardia del minore, ed in questo caso il Consulente si
dovrebbe confrontare con l’equipe, il supervisore e l’AICCeF, per adottare un
comportamento che tuteli tutte le parti coinvolte;
·
se
le notizie riferite da un minore riguardano se stesso (abusi o maltrattamenti
ricevuti), vi è obbligo di segnalazione all’autorità giudiziaria e/o ai servizi
sociali; e non opera l’obbligo al segreto professionale.
Diverso il
coinvolgimento del professionista di fronte ad un procedimento penale, o all’attivazione
di indagini di polizia giudiziaria per un reato connesso alla coppia o alla
famiglia, per rimanere nell’argomento. Es.: maltrattamenti, abusi, pedofilia,
pedopornografia ecc.
In questo caso il
professionista che viene interpellato da un funzionario della Polizia
giudiziaria, che sta indagando su ordine della Procura della Repubblica, potrà
opporre il segreto professionale, con la coscienza di rispettare il Codice
Deontologico e con la consapevolezza che soltanto il cliente, titolare del
segreto, può autorizzarlo a rivelare.
È anche vero, però,
che per ragioni di giustizia e quando non se ne può fare a meno, il procuratore
può emettere una ordinanza di esonero dal segreto professionale e questo atto
imporrebbe al Consulente di riferire sui fatti e le notizie di cui è venuto a
conoscenza a causa della sua professione.
CASISTICA
Di seguito esponiamo
un caso che potrà fornire un orientamento nell’attuare comportamenti, idonei
per un professionista, per affrontare fattispecie così complesse.
È una vicenda realmente
accaduta, la cui cronaca ci è stata messa gentilmente a disposizione dal prof.
Raffaello Rossi.
Caso pratico.
Presso lo
sportello di ascolto di una Scuola media, dove presta il suo servizio un
Consulente familiare, si presenta C., ragazza quattordicenne di seconda media,
ripetente, inviata da una professoressa a cui ha confidato «cose molto
personali».
C. riferisce
al Consulente di essersi confidata con la professoressa in occasione di un tema
sulle relazioni familiari. Vive con la madre di 46 anni e il compagno della
madre, mentre i suoi genitori si sono separati da 4 anni e il padre se ne è
andato, perdendo la patria potestà a seguito di un intervento dei servizi. C.
riferisce che con la madre va tutto bene e che la mamma è una grande lavoratrice,
ma avendo sulle spalle la famiglia si stanca molto. I pomeriggi spesso C. li
vive col compagno della mamma e dopo aver studiato guardano la televisione.
Quasi con fierezza C. racconta che il compagno della mamma la accarezza, si
«struscia» su di lei mentre guardano la tv e una volta «è anche venuto». A C.,
che ritiene di dimostrare più dei suoi anni, all’inizio le andava bene questo
atteggiamento che la faceva sentire grande, ma ora non ne vuole più sapere perchè
adesso ha un ragazzo. Non ne ha parlato alla mamma per paura di farla litigare
col suo compagno.
Si concretizza l’ipotesi di abuso su minore.
Come
muoversi?
1) La professoressa (che è un
pubblico ufficiale), dopo averne parlato col proprio dirigente e col
consulente, invia una doppia segnalazione ai servizi sociali
territoriali e al tribunale dei minori.
2) Il consulente, rafforzato il
patto di fiducia con la ragazza, chiede
a C. di parlarne con la madre, in quanto si profila un reato da codice penale
ed essendo lei minore, pur non volendo tradire la fiducia e il segreto, si
sente tenuto a fare a sua volta la segnalazione .
3) Dopo
alcune resistenze e paure C chiede di poter venire allo sportello con la mamma
il giorno seguente.
4) La madre è dapprima
titubante, poi di fronte all’insistenza e ai dettagli forniti dalla figlia
sente una grande rabbia nei confronti del compagno, si colpevolizza per averla
lasciata sola tutti i pomeriggi con lui… si riavvicina alla figlia emotivamente
e decide di sporgere denuncia.
5) Si avvia l’iter giudiziario e il compagno viene
allontanato da casa per decisione della madre di C. prima di ogni
intervento dei servizi o del tribunale dei minori.
6) il consulente viene contattato telefonicamente da una referente dei servizi sociali. Risponde che
non essendo il telefono un canale ufficiale e non conoscendo chi sia la persona
dall’altro capo del telefono, se c’è bisogno di un confronto ufficiale e
professionale egli deve essere contattato per via ufficiale e scritta e
comunque prima di ogni risposta deve avere una liberatoria scritta da parte di
C. e di sua madre, non essendoci ancora estremi penali in corso
7) I servizi sociali delegano la convocazione
del Consulente agli organi di polizia giudiziaria.
8)
Giunge una lettera di avviso dal tribunale cui seguirà una convocazione
ufficiale presso il commissariato
di riferimento cittadino, con la data, l’ora e il nominativo dell’ispettore cui
il consulente dovrà rivolgersi. La convocazione è obbligatoria in
qualsiasi giorno ed orario, anche lavorativo, e il consulente è giustificato
per una eventuale assenza dal posto di lavoro.
9) In
commissariato il consulente viene sentito come persona informata sui fatti; gli vengono essenzialmente rivolte domande
chiuse per verificare le deposizioni già
raccolte della professoressa, della
ragazza e della madre. Il consulente risponde dopo avere chiesto di visionare
l’autorizzazione della madre della ragazza (cosa peraltro in questo caso non
necessaria, visto l’ambito penale e il riferimento alla salvaguardia di un
minore) Viene poi letto il verbale e sottoscritto dal consulente dopo averne
verificato la veridicità e coerenza.
Il
prossimo Dossier sarà pubblicato sul numero 2/2016, si occuperà di Consulenza e
violenza e sarà a cura di Rita Roberto.
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