IL CONSULENTE DI COPPIA di G. Bartholini, Parte terza Cap. 5


CAP. 5 IL TRATTAMENTO. ESEMPI.

Identificazione del cliente con il C.F.
In molti trattati di psicoterapia o di metodologia del colloquio
(specialmente del colloquio di servizio sociale) entra in ballo spesso
il fenomeno della identificazione del cliente col terapeuta; e viene
anche detto che questa identificazione – sia pure variamente interpretata
e causa da differenti situazioni – è quasi sempre un fenomeno
positivo durante la terapia.
Quando e perché, nel trattamento in consultorio familiare, si verifica
questa identificazione? È bene precisare subito che essa non si
verifica in tutti i casi, ma soltanto quando si creano alcuni presupposti,
che elenco: che il cliente entri in contatto con il consultorio
in un momento in cui è particolarmente scosso dalle emozioni del
suo problema; che il C.F. non risulti mai direttivo nei suoi riguardi;
che non esistano nel quadro psicologico del cliente degli aspetti patologici,
quegli aspetti patologi, ci che abbiamo esaminato quando
abbiamo parlato del colloquio e che impediscono la creazione di un
rapporto.
Quando si verificano quintali questi tre presupposti (cliente molto
lontano da un normale equilibrio; consulente familiare che non
è mai direttivo; problema non di natura patologica) avviene dunque
questo fenomeno della identificazione che non va assolutamente
confuso con quello del transfert (anche se a volte ha degli aspetti
simili), che avviene a un livello molto più profondo e che va sempre
provocato e trattato da uno specialista. La identificazione comincia
invece quando il cliente, dopo un certo numero di colloqui con il
C.F., comincia a far chiare alcune considerazioni, alcune istanze e
a reperire dentro di sé delle potenzialità che non sapeva di avere o
che – se sapeva di avere – non poteva in quel momento utilizzare. A
questo punto il cliente ha un vero e proprio fenomeno di tendenza a
strutturarsi una personalità simile a quella del C,F.: tende a pensare
come lui, talvolta ne imita perfino i gesti e le parole, cerca di vedere
i problemi con i suoi occhi e di assimilarne la personalità. Di fatto,
questa assimilazione è impossibile: tuttavia, il cliente tende a far suo
tutto ciò che della personalità del C.F. ha percepito e vissuto in un
certo modo. Chi lavorerà in questo campo sentirà spesso un cliente
che gli dice: «Mi piacerebbe molto fare il suo lavoro», oppure «Si
seguono degli studi speciali per diventare consulente familiare?»,
oppure «Vorrei cambiare la mia vita con la sua», e cose del genere.
Questi naturalmente sono esempi abbastanza superficiali, ma sono
sempre dei campanelli d’allarme che l’identificazione è cominciata.
Chiediamoci adesso se questa identificazione sia un fatto positivo
o negativo. Non ci sentiamo di assumere né l’una né l’altra posizione,
perché si sono visti casi in cui l’identificazione non è mai avvenuta
durante il trattamento e che si sono risolti bene, altri in cui l’identificazione
è avvenuta e che si sono risolti malissimo, e viceversa. Né sta
a noi approfondire se il fenomeno della identificazione sia un passaggio
obbligato in tutte le metodologie che il C.F. utilizza, o se ve
ne siano alcune in cui l’identificazione possa invece essere evitata
perché negativa.
Sta di fatto però che, se questa identificazione comincia, cominciano
nello stesso momento degli altri problemi per il consulente, il
quale deve affrontare alcuni pericoli professionali. Prima di tutto c’è
il pericolo di essere talmente lusingati dal fatto che il cliente si identifica
con noi, da assumere – volenti o nolenti – degli atteggiamenti
direttivi che non aiuteranno il cliente a ritrovare la sua personalità.
Un altro pericolo, che il C.F. corre quando comincia l’identificazione
con lui del cliente, è quello di credere che il caso sia concluso
favorevolmente: questo avviene proprio perché il cliente comincia ad
imitare il C.F., a chiedergli consiglio, ad accettarne supinamente tutti
i pareti e il C.F. crede che finalmente questa persona abbia trovato il
suo equilibrio.
La presunzione di tutti noi non ha limiti e purtroppo si cade in
questo trabocchetto con molta più facilità di quanto si possa pensare.
A questo punto è abbastanza facile obiettare che, se il C.F. durante
il trattamento segue la metodologia non direttiva – e quindi lascia
al cliente di trovare in sé tutte le carenze e le forze per superarle –
il fenomeno della identificazione non dovrebbe verificarsi o per lo
meno dovrebbe verificarsi solo in minima parte: verissimo, tuttavia
chi lavorerà vedrà quanto sia difficile, sia per motivi psicologici che
per la complessità di alcuni casi che richiedono interventi direttivi,
attenersi soltanto ai metodi non direttivi. Tuttavia, se l’identificazione
– vasta o minima – si verifica, è importante che il C.F. non
se ne lasci lusingare e sappia a poco a poco affrontare un periodo
di particolare tensione che lo attende (tensione con se stesso e con
il cliente), per iniziare lo sganciamento progressivo del cliente che,
proprio ritrovando le sue forze attraverso questa identificazione con
il C.F., deve cominciare a camminare con le sue gambe. Se invece il
C.F. si lascerà sedurre dal fatto che il cliente «voglia assomigliargli»,
non aiuterà certo il suo sganciamento e rischia o di interrompere il
caso troppo presto, credendolo finito, o di continuarlo al di là del
necessario, tenendo il cliente in questa posizione di «schiavitù». Il
cliente abbandonato troppo presto, perde la preziosa occasione di
acquistare una maggiore sicurezza e quindi la capacità di muoversi
positivamente nel rapporto di coppia; il cliente, invece, tenuto in una
posizione di soggezione psicologica al C.F., perde del tempo prezioso
che potrebbe essere impiegato per acquistare questa sicurezza personale
e in coppia.
Nell’ambito di queste note discorsive sulla identificazione, non
possiamo dimenticare ancora due aspetti: quello della identificazione
di un solo membro della coppia e quello della identificazione con
il C.F. di ambedue i membri della coppia.
Di questi due aspetti, i problemi destati dal primo sono forse fin
troppo ovvii; mentre quelli suscitati dal secondo, sono soltanto da
segnalare, in quanto non esiste sufficiente letteratura che ci permetta
per ora di approfondire l’argomento, argomento che psichiatri e psicologi
hanno tuttavia già tentato di studiare.
Durante la identificazione di uno solo dei membri della coppia
(a volte la identificazione avviene per ambedue, ma in tempi diversi),
i problemi che nascono per il C.F. sono soprattutto quelli di fare
in modo di non aumentare l’aggressività e la tensione esistente fra i
due membri di coppia, con comportamenti scorretti o superficiali.
È infatti possibile che, quando uno dei due membri si identifica con
un C.F., entri anche in uno stato psicologico nel quale si sente più
aggressivo verso il coniuge, perché vive il C.F. come «colui che gli
dà ragione» (anche se il C.F. non ha fatto nulla per farglielo credere:
questo è uno degli aspetti specifici della identificazione); in quel
momento il C.F. si trova in una posizione difficile e abbastanza delicata,
in quanto uno dei membri della coppia (quello che ha iniziato
il processo di identificazione) si trova all’inizio della sua evoluzione
personale all’interno della dinamica di coppia, mentre l’altro dei due
membri può aver già superato questa fase, o non esservi ancora entrato
e trovarsi ancora nello «stato confusionale», che caratterizza i
primi rapporti con il consultorio e con il proprio problema di coppia.

Per quanto sia difficile da realizzare, il C.F. deve in questo momento
proporsi il seguente programma:
– fare di tutto per non favorire l’aggressività di uno dei membri verso
l’altro, o di tutti e due (ricordare inoltre che l’aggressività può
essere scatenata all’interno del consultorio durante un colloquio,
oppure in quella sede essere repressa e venire scatenata nell’ambito
delle pareti domestiche);
– sostenere quello dei due coniugi che è oggetto dell’aggressività
dell’altro, osservando bene se tale aggressività gli procura reazioni
o forme di sfiducia o di depressione;
– stare attento, con un comportamento quanto mai prudente, di
non frustrare il coniuge che si trova all’inizio della fase di identifi-
cazione, dandogli torto o ragione, e quindi perdendo per sempre
la possibilità di aiutarlo.
Resta adesso da esaminare l’ultimo aspetto, quello della identificazione
contemporanea di ambedue i membri della coppia con il C.F.
Evidentemente sul verificarsi di questo fenomeno possono essere fatte
molte obiezioni, la più ricorrente delle quali è quella che non sia
possibile che contemporaneamente due persone, di sesso diverso, si
identifichino con lo stesso terapeuta; tuttavia, se si vuol tenere conto
di quanto detto più sopra che la identificazione non deve essere confusa
con i fenomeni di transfert, anche questa obiezione può forse
essere discussa.
Per esperienza personale, mi sembra di poter affermare che questa
identificazione di due persone con una sola, può avvenire, e contemporaneamente,
e che ha un aspetto molto positivo: tuttavia, perché
si verifichi occorrono indubbiamente dei presupposti che sono:
– il tipo di problema non a livello profondo; la personalità non
competitiva dei due membri;
– il livello della tensione e la soglia di rispettiva sopportabilità di
questa tensione, simili nei due membri;
– il livello di collaborazione uguale nei due membri; la disponibilità
totale del C.F.;
– l’esclusione totale della tecnica direttiva.
Il verificarsi di questi presupposti, tutti e contemporaneamente,
non è evidentemente facile; e fra tutti il più difficile è l’ultimo, quello
della esclusione totale della tecnica direttiva, metodologia che abbiamo
già detto essere quasi di impossibile applicazione sia per la
difficoltà, sia per i concreti problemi di un consultorio.
Tuttavia, se tutti questi presupposti si verificano, si realizza anche
durante il periodo in cui dura la identificazione (per solito è
un periodo breve che non oltrepassa mai il mese o il mese e mezzo:
il che significa quattro o sei colloqui con la coppia) una atmosfera
particolare di collaborazione a tre, nella quale il C.F. serve appunto
da specchio, da strumento di identificazione e poi di sganciamento.
In questa atmosfera, direi quasi che aleggia un rapporto «d’amore»,
che tutti e tre i gerenti del rapporto (coppia e C.F.) respirano, hanno
creato e utilizzano per crescere. Un rapporto d’amore confuso, che
va contemporaneamente in sei direzioni (da ognuno dei tre membri
del rapporto verso gli altri due e viceversa) e che a poco a poco si
chiarifica e costituisce il punto di partenza per la riverifica di tutti i
problemi e della dinamica della coppia.
Certamente tutto quanto detto a proposito della identificazione
della coppia con il C.F. è poco tecnico, assolutamente non scientifico:
non è nelle mie intenzioni, entrare, nel campo degli psichiatri e degli
psicologi che potrebbero studiare questo problema: ho voluto semplicemente
riferire alcune esperienze, le sensazioni che ne sono nate
e segnalare le possibilità offerte, da questa situazione, per lo studio
più approfondito di un particolare momento della dinamica che si
sviluppa fra la coppia e il C.F.

Imprevista brevità di un trattamento
È un caso che si verifica qualche volta, nonostante le previsioni
contrarie del C.F. e magari anche nonostante i programmi già fatti
insieme col cliente. Si era previsto un trattamento di una certa durata
per raggiungere determinati scopi e specifiche chiarificazioni e,
all’improvviso, il rapporto si spezza. Le ipotesi che si possono fare
sono abbastanza numerose ed è bene che il C.F. cerchi di approfondirle,
perché questi casi sono una grande scuola di apprendimento.
Esaminiamo dunque alcune delle ipotesi che potrebbero giustificare
l’interruzione improvvisa di un trattamento.
La prima delle ipotesi che mi viene in mente è quella di un errore
da parte del C.F.: per solito poi un errore ne porta altri e si inizia
una catena di sbagli, dalla quale è difficile uscire e che quasi sempre
porta alla interruzione del trattamento senza avere risolto il caso.
Ripensiamo alla relazione di colloquio citata poche pagine fa, nella
quale sono anche riportate tutte le osservazioni che il C.F. ha fatto nel
momento in cui, stendendo la relazione, ha ripensato all’accaduto fra
lui e il cliente. Una serie di errori che hanno portato – in apparenza
inspiegabilmente – a un netto rifiuto da parte del cliente di continuare
il rapporto con il C.F. In questi casi naturalmente è indispensabile
analizzarsi, ma è altrettanto indispensabile non scoraggiarsi eccessivamente,
perché anche il C.F. ha a volte delle reazioni che non riesce
sempre a controllare. Questo discorso può essere anche una buona
occasione per sottolineare nuovamente l’importanza di stendere le
relazioni dei colloqui, le relative osservazioni del comportamento sia
del C.F. che del cliente, perché effettivamente un caso come quello
riportato precedentemente è stato di notevole aiuto sul piano professionale
e sul piano della autoanalisi.
Un’altra ipotesi che si può fare per un trattamento improvvisamente
interrotto è che il cliente si spaventi dello sforzo che deve fare
frequentando il consultorio: ricordiamoci che, fin dai primi colloqui,
egli deve percepire la necessità di impegnarsi, deve sapere che il C.F.
deve possibilmente vedere anche il coniuge, deve farsi un programma
che lo porterà probabilmente al consultorio almeno una volta
alla settimana per qualche mese. Tutto questo gli viene fatto capire
fin dai primi incontri e al cliente non può sfuggire che i colloqui hanno
una frequenza e una durata fisse e che egli non riceverà consigli.
Tutto questo evidentemente può renderlo molto perplesso e sta naturalmente
al C.F. di aiutarlo nella accettazione di questo impegno.
Tuttavia il cliente che, dopo il primo o il secondo colloquio, nonostante
i programmi, interrompe il rapporto, evidentemente sceglie
di stare nel suo problema: vuol dire che il momento non è ancora
venuto per risolverlo. Il C.F. non si scoraggi, non abbia la sensazione
di inutilità, che ci prende tutti quando avviene qualche cosa che
non era inserito nei programmi: in questi casi il seme è comunque
buttato e quasi certamente il cliente tornerà, quando sarà maturo per
«lavorare». Da questo si vede quanto sia importante tutta una serie
di chiarificazioni che debbono essere fatte al cliente fra il primo e il
secondo colloquio, e quanto sia importante la maniera di esporle,
proprio perché – se il cliente non è in quel momento in grado di
accettarle – preparino comunque il terreno, perché quel seme possa
fruttificare al momento opportuno: un comportamento scorretto, in
questa fase brevissima del trattamento, può creare un ostacolo ad un
futuro rapporto. Nel corso della professione mi è capitato spesse volte
di entrare in contatto con clienti che avevano già tentato altri esperimenti
in altri consultori e talvolta anche in altre città e che si erano
scoraggiati proprio davanti all’impegno, ma anche per un comportamento
del C.F. (o di chi per esso) che non permetteva loro di «ben
sperare», cioè che non dava loro sufficiente sicurezza. Naturalmente
è capitato anche a me di sapere che clienti, con i quali io avevo fatto
degli errori e che si erano scoraggiati, hanno poi al momento opportuno
proseguito il rapporto in altri consultori.
Una terza ipotesi è che ambedue i membri della coppia, dopo avere
iniziato il trattamento, preferiscano rimanere nel loro problema,
perché si scoraggiano dell’impegno che comporta il fare qualcosa per
uscirne; si può fare qui lo stesso discorso che abbiamo fatto per il
caso precedente e che riguarda la necessità che il C.F. chiarifichi tutte
le difficoltà dell’impegno, ma che chiarifichi in un modo corretto,
in modo che quel seme possa dare i suoi frutti, quando la coppia
deciderà. In questi casi, quando una coppia viene insieme e «sparisce
» insieme, il C.F. si è ben reso conto dell’entità del problema che
i due portavano: ed è spesso con il cuore stretto che deve assistere
al loro allontanamento dal consultorio. Tuttavia, tenga presente che
– per quanto a noi sembri grave il problema – se i due clienti hanno
deciso di rimandarne la soluzione, vuol dire che proprio le crisi
date da quel problema rappresentano in quel momento un punto di
sicurezza maggiore che non l’uscirne. E ricordiamoci inoltre che una
decisione presa insieme di non uscire da una crisi è un dato positivo,
da annotare sulle relazioni dei colloqui con quella coppia, perché si
tratta di un dato utilissimo se nel corso del tempo il caso si riaprirà.
Un’altra ipotesi di un trattamento interrotto prima del previsto,
si verifica quando: la coppia percepisce quasi immediatamente l’entità
del suo problema, ne trova la soluzione e la applica. È un caso
abbastanza raro, bisogna ammetterlo, e accade soltanto quando si
verificano alcuni presupposti, una parte dei quali può essere elencata
come segue:
– che il C.F. abbia «lavorato per conto suo», cioè abbia dato al problema
una importanza eccessiva, lo abbia sentito lui stesso più
traumatizzante di quanto non lo fosse per la coppia, e abbia quindi
fatto in un certo senso dei programmi sui quali la coppia – anche
aderendo verbalmente – non aderiva a livello più profondo;
– che il comportamento del C.F. sia stato invece molto buono: chi
si metterà a lavorare nel campo della consulenza familiare, vedrà
infatti che quanto più un comportamento è corretto, tanto più un
caso si risolve nel giro di breve tempo;
– che il livello di intelligenza, di cultura e di capacità di verbalizzazione
della coppia sia tale da permettere subito un rapporto concreto
ed evolutivo;
– che la disponibilità a voler risolvere il problema sia allo stesso
livello in tutti e due i membri della coppia;
– che il livello del problema non sia troppo profondo, o che per lo
meno la soglia di tollerabilità del problema da parte di ambedue i
membri della coppia sia molto alta.
Un ulteriore caso in cui il trattamento può interrompersi bruscamente
può verificarsi quando nella vita della coppia interviene
all’improvviso un fatto nuovo. Esso può essere costituito dal matrimonio
dei due, dalla inattesa convivenza di un familiare rimasto
solo, all’allontanamento di uno dei due membri della coppia, o da altri
fattori che comunque per un certo periodo distraggono l’attenzione
dei due membri della coppia dal punto centrale del loro problema.
Questo allontanarsi dalla crisi è per solito momentaneo e del tutto
illusorio: tuttavia obbliga la coppia a modificare per un certo periodo
la propria dinamica. L’intervento di un fatto nuovo dà sempre una
certa quantità di speranza, specialmente se il fatto nuovo è costituito
da avvenimenti che sono comunemente considerati «felici» nella
società in cui si vive, come un matrimonio o la nascita di un figlio: i
problemi che c’erano prima sembrano potersi risolvere in seguito a
questo avvenimento.
Tuttavia, così come sarebbe bene che le coppie... non si facessero
troppe illusioni che il «fatto nuovo» possa bastare a risolvere vecchi
problemi, sarebbe altrettanto bene che il C.F. non azzardasse ipotesi
personali sul fatto che quei due clienti certamente torneranno in
quanto, una volta esaurita la novità, i punti dolorosi del loro rapporto
torneranno a far male. Nessuno può fare previsioni su quello che
è la dinamica di un rapporto di coppia e tanto meno quando questa
dinamica viene improvvisamente murata da un elemento esterno:
bisogna considerare che questo elemento esterno a volte è rifiutato,
ma a volte è voluto dalla coppia e che la sua scelta, anche se in apparenza
fatta contro qualsiasi logica, può invece essere la migliore per
stabilizzare il loro rapporto e il loro dialogo.

Il cliente non si sgancia mai
Abbiamo detto altrove, e vi ritorneremo più avanti, che un trattamento
ha una certa durata relativa alla natura del problema e che
non deve protrarsi oltre certi limiti; e abbiamo detto anche che quanto
più il comportamento del C.F. è corretto, tanto maggiori sono le
speranze che il caso si risolva in tempi relativamente brevi. Durante
un trattamento, nella normalità delle situazioni, il cliente ritrova la
propria autonomia, anche se già vi abbiamo accennato il caso può
sempre riaprirsi.
Un caso cosiddetto normale di consultorio, risponde a molti requisiti,
quattro dei quali ci sembrano assolutamente essenziali:
– normalità del quoziente intellettuale del cliente; infatti al di sotto
di un certo quoziente intellettuale è evidente che entriamo anche
nelle patologie e il caso non è più di consultorio;
– normalità della pressione del problema sul cliente: una pressione
troppo forte corrisponde a una intollerabilità del cliente e quindi
ad una impossibilità di soluzione rapida in consultorio o con un
altro esperto;
– normalità delle capacità e risorse del cliente: una personalità
troppo fragile o labile, non capace di farsi dei programmi e di seguirli,
di analizzarsi psicologicamente e di affrontare i disagi che
ogni problema comporta, è una personalità con la quale non si
lavora facilmente, non si risolve un caso e si può fare tutt’al più
una terapia di sostegno;
– normalità del comportamento del C.F.
Quando si verificano almeno questi quattro presupposti, il caso
si, risolve entro un certo periodo. Tuttavia, per quanto riguarda la
situazione di un cliente che, una volta entrato in rapporto con il consultorio,
non riesce mai a sganciarsene, mi sembra più da imputarsi
al non verificarsi del quarto presupposto elencato, e cioè al comportamento
scorretto del C.F.
Per il particolare caso del cliente che non riesce a staccarsi dalla
dipendenza dal consultorio, possiamo individuare che il C.F. può
essere stato troppo direttivo, oppure troppo gratificante, oppure lui
stesso troppo bisognoso di gratificazione.
(continua)

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