IL CONSULENTE DI COPPIA di Giovanna BARTOLINI. Parte terza Cap.4

CAP. 4   IL SIGNIFICATO DEL PRIMO APPROCCIO

Alcune differenti situazioni
Ci sembra utile indicare una certa gamma di situazioni a cui il
futuro C.F. deve essere preparato, e altrettanto utile indicare una serie
di ipotesi, che potranno fornire al futuro consulente argomenti di
meditazione, di discussione in gruppo o anche semplicemente essere
tenute presenti al momento di valutare una situazione analoga che
gli si presentasse. Di più facile lettura quindi, ma non sempre di più
facile utilizzo.
In questo capitolo esamineremo alcuni significati del primo contatto
fra il cliente e il consultorio, cioè del primo messaggio che il
cliente trasmette al C.F. e che questi deve avere la possibilità di recepire,
anche se non può interpretarlo immediatamente; tuttavia, a
livello mentale, egli può fare una rapidissima serie di ipotesi.

Il cliente viene solo ma ha un partner: quando un cliente si presenta
da solo e durante il colloquio si viene a sapere che ha un partner,
il C.F. può evidentemente fare molte ipotesi sul perché il partner non
sia presente al colloquio:
– è probabile che il problema non interessi il partner;
– se il problema lo interessa (per esempio disaccordo coniugale,
problemi educativi con i figli, ecc.), il partner può non essere disponibile
a un contatto col consultorio;
– il partner può non approvare la decisione dell’altro di prendere
contatto con il consultorio;
– il partner può avere problemi di lavoro, per cui non riesce a venire
anche lui in consultorio;
– il partner può «mandare avanti» il coniuge per tastare il terreno e
vedere con quale tipo di ente sono venuti in contatto.
Al C.F. si presentano tuttavia alcune alternative di lavoro:
- può a un certo punto del rapporto voler chiamare l’altro partner e
riuscire a prendere contatto con lui;
- può chiamarlo, ma non riuscire assolutamente a mettersi in contatto
con lui;
- può trovarsi davanti a un rifiuto preciso del cliente che è venuto
in consultorio di chiamare l’altro coniuge.
È evidente che ognuna di queste ipotesi avrà, nel corso del colloquio
e del rapporto, un significato particolare e suggerirà al C.F. un
particolare comportamento e una particolare scelta di metodologia
del trattamento. È importante comunque che il C.F., magari quando
stende la relazione del primo colloquio, metta per iscritto tutte le
ipotesi che gli vengono in mente, per tenerne poi conto in futuro
durante il trattamento.

I clienti vengono in coppia: il messaggio che lancia una coppia che
viene insieme può essere di molti tipi e rivestire molti contenuti:
– la coppia può aver deciso insieme di venire al consultorio per un
fondamentale buon accordo, che li porta a discutere insieme qualunque
problema;
– ognuno dei due partners può desiderare di essere presente al colloquio
dell’altro con il consultorio per un fondamentale senso di
sfiducia; vuole cioè esercitare una specie di controllo;
– ciascuno dei due partners può voler essere presente con un atteggiamento
di sfida nei riguardi dell’altro («vediamo se hai il coraggio
di dire la tal cosa»);
– ambedue i coniugi possono essere presi da un momento di sfiducia
reciproca, ma desiderano tentare anche un recupero del loro
rapporto;
– ognuno dei due coniugi spera che il C.F. sia un «giudice» e che sia
a proprio favore;
– ambedue, oppure solo uno dei due partners, desiderano essere
presenti al colloquio con la volontà di scoprire qualcosa dell’altro
che non capiscono e sperano che la presenza di una terza persona
fra loro li aiuti a comunicare meglio.
Naturalmente queste sono alcune delle ipotesi più comuni che si
possono fare, quando si cerca di dare un significato al primo approccio
del cliente; starà poi al C.F. decidere (e vedremo del prossimo
capitolo come e perché) se continuare a vedere la coppia sempre insieme,
oppure se fare ogni tanto qualche seduta individuale, o ancora
se vedere sempre i due coniugi separatamente con qualche raro incontro
a tre.
Il cliente viene solo, e non ha un partner: teoricamente questo caso
dovrebbe uscire dalle competenze del consultorio, del quale – abbiamo
detto spesso – il vero cliente è la coppia. Comunque, il fatto che
una persona venga al consultorio pur non avendo un partner, può
costituire egualmente una possibilità di aiuto per una persona in difficoltà.
Tuttavia questa possibilità si presenta solo quando il cliente
ha un certo tipo di problematiche, come per esempio:
– ha difficoltà sessuali di ordine funzionale o psicologico, che gli
impediscono di stabilire dei buoni rapporti con l’altro sesso;
– è entrato in particolari stati di depressione, di incapacità di lavoro,
di salute compromessa in seguito a rapporti sentimentali che
non si sono svolti nel senso desiderato.
In ambedue questi casi, il C.F. avrà la possibilità di indirizzarlo
verso lo specialista giusto (sessuologo, urologo, medico generico,
psichiatra, psicologo, ecc.) per aiutarlo a risolvere un problema che il
consultorio non può e non deve trattare.
Tuttavia vi possono anche essere dei clienti – è capitato spesso –
che vengono al consultorio proprio perché non hanno un partner e
sperano che in qualche modo il C.F. possa metterli in contatto con
persone dell’altro sesso, per tentare di stabilire dei rapporti sentimentali.
È evidente che un consultorio matrimoniale e prematrimoniale
non contempla questo tipo di attività che, oltre ad uscire dalle
sue normali competenze, non è un servizio sociale: può forse essere
inserito nei servizi assistenziali o può anche rientrare in certi programmi
speculativi di alcune agenzie matrimoniali, ma certamente
– ripeto – non è un servizio sociale. Questo dico perché – per quanto
possa sembrare assurdo – molti futuri C.F. potrebbero non escludere
dalle loro possibilità di lavoro anche il favorire incontri fra persone
di sesso diverso, a scopo di matrimonio.

Il cliente non vuole il partner: vi sono molti casi in cui la prima
persona di una coppia che viene al consultorio rifiuta recisamente
di incontrarsi in quella sede con il proprio coniuge. I problemi di
una relazione extra-coniugale dell’uno o dell’altro (o magari di ambedue)
sono quelli classici, ma ve ne possono essere altri. Le ipotesi
sul perché di questo rifiuto sono numerose ma – dato che parliamo
ancora di primo approccio fra consulente e cliente – sono sempre
azzardate: è evidente che fra i due coniugi vi è una atmosfera tale
che impedisce il confronto a tre e che quello dei due che si è recato al
consultorio ha, nei riguardi dell’altro, dei sensi di colpa. L’aspetto più
difficile di questi casi è per il C.F., il quale si trova comunque davanti
a un cliente/coppia, poiché anche se assente, l’altro è sempre massicciamente
presente ai colloqui. Durante questo primo incontro, il C.F.
dovrà decidere soltanto se assumere il caso in trattamento per farlo
evolvere o no: le ragioni in base alle quali egli potrà prendere questa
decisione sono legate alla personalità del cliente, al tipo di problema,
al tipo di rapporto che c’è fra il cliente e il coniuge e alle eventuali
possibilità di evoluzione di questo rapporto.
Se, dalla analisi di molti fattori il C.F. decide che quel caso non
può essere portato avanti, dovrà troncarlo al massimo dopo il secondo
o il terzo colloquio, cioè quando avrà avuto la possibilità di
verificare certe ipotesi; se viceversa decide di poter assumere in trattamento
la persona, e di agire attraverso di essa anche sul coniuge
assente, allora si presentano dei problemi che vedremo nel prossimo
capitolo dedicato al trattamento.
La cosa importante, in queste situazioni, è che il C.F. non decida
di tenere comunque il caso se deve trattare solo il coniuge che
è venuto in consultorio senza potere, attraverso di lui, agire anche
sull’altro.

Il cliente non viene, ma a sua insaputa viene altra persona: capita
non infrequentemente che qualcuno venga al consultorio a parlare di
un possibile cliente, o di un problema di altre persone.
I casi più frequenti sono i seguenti:
– può darsi che il servizio sociale di un altro ente abbia in trattamento
una persona e che, per alcuni suoi problemi, sarebbe utile
l’intervento del consultorio; tuttavia questo servizio sociale ha alcune
perplessità ad abbandonare completamente il caso, oppure a
far intervenire il consultorio per un breve periodo di trattamento:
le ragioni possono essere molte, e prima fra tutte quella che al
cliente può essere emotivamente dannoso interrompere, temporaneamente
o per sempre, il rapporto con un operatore sociale e
iniziato con un altro. L’operatore sociale dell’altro ente viene quindi
a esporre il caso e a chiedere o collaborazione, o suggerimento,
o assunzione futura del caso;
– può invece capitare la persona «piena di buona volontà» che è a
conoscenza di una situazione matrimoniale difficile (o dal punto
di vista materiale o da quello psicologico) e desidera aiutare quel
gruppo familiare; si dice tuttavia sicura che nessuno di quella famiglia
verrà mai in consultorio e quindi chiede lei «che cosa deve
fare». È evidente che il C.F. in questi casi non potrà dare altro
che qualche suggerimento, ma dovrà soprattutto insistere sul fatto
che la persona interessata deve venire personalmente, spontaneamente,
e possibilmente dopo una scelta ponderata. Questo
serve anche per abituare la persona «di buona volontà» al fatto
che esistono dei servizi sociali, che sono molto diversi da quelli
assistenziali intesi in senso di beneficenza. Si potrà suggerire anche
 a questa persona la possibilità – se lo trova opportuno – di far
sapere alla famiglia in difficoltà che esiste un ente specializzato
per aiutarla nei suoi problemi;
– può invece presentarsi una persona che espone il caso di un familiare,
nel quale è strettamente implicata dal punto di vista emotivo:
esempi abbastanza comuni sono la madre che viene a chiedere
l’intervento del consultorio perché il figlio si divida dalla moglie,
dato che questo matrimonio, secondo lei, non può funzionare;
oppure la sorella che ha sempre allevato i figli di un fratello, il cui
matrimonio pare non ben riuscito, e vuole sapere quali sono i
suoi limiti di azione proprio nei riguardi di questi ragazzi; oppure
il marito che viene a chiedere gli anticoncezionali per la moglie,
ma non vuole assolutamente che questa venga al consultorio; oppure
uno dei due coniugi che, ritenendo immorale od offensiva la
condotta dell’altro, chiede al consultorio di fare un «sopralluogo»
all’improvviso nella loro casa, per rendersi conto di una certa situazione.
Se ne potrebbero citare molto altri.
Il C.F. deve, con garbo, ma con grande fermezza, rifiutare sempre
il proprio intervento quando è chiesto da terze persone.
Il cliente manda un’altra persona: questo caso è abbastanza frequente
e può presentarsi in linea di massima tutte le volte che, per
qualche ragione emotiva o anche pratica, il cliente non può immediatamente
presentarsi al consultorio.
Anche qui la fermezza del C.F. deve essere assoluta: consiglierà
all’ambasciatore di lasciar maturare la situazione fino al momento in
cui la persona o la coppia interessata potrà venire personalmente per
un incontro. Non facciamo particolari ipotesi su questa situazione,
nella quale non vi sono molte alternative di comportamento per il
C.F.

La persona si presenta, accompagnata da un’altra che non è il partner:
questa situazione, che si presenta non raramente in consultorio,
è abbastanza complessa per le dinamiche che propone e le continue
scelte a cui il C.F. viene obbligato.
Per esempio:
– se il cliente non ha scelto liberamente di essere accompagnato,
ma questo accompagnatore si è in un certo senso imposto, è sufficiente
che il C.F. mostri, appena se ne accorge, una certa fermezza
nell’«eliminarlo» dal rapporto. Facciamo un esempio: l’esperienza
ha dimostrato che più di una volta si presentano persone assistite
da quelle signore di buona volontà di cui abbiamo parlato sopra,
magari facenti parte di associazioni assistenziali; ci si può accorgere
immediatamente che il vero cliente non è affatto soddisfatto
della presenza di questo accompagnatore e che preferirebbe un
rapporto diretto con il C.F. Quando si tenta di presentare la possibilità
di parlare da soli con il cliente, la risposta sovente è: «No no,
per carità, se vado via io non avrà il coraggio di parlare»; oppure
«Impossibile che io esca: debbo sentire che cosa lei dice, perché
in un secondo momento debbo poter utilizzare le sue parole»; e
altri fiori di questo genere! In questi casi se il C.F. è assolutamente
sicuro che la presenza dell’altra persona porta un disturbo al loro
rapporto, non abbia nessuna preoccupazione nell’insistere per
parlare da solo con il vero cliente. Naturalmente dovrà anche tenere
presente la possibilità che una «eliminazione forzata» possa
poi ritornare a svantaggio del cliente: è una situazione comunque
abbastanza delicata;
– un’altra possibilità da esaminare è quella in cui è il cliente che
ha scelto di farsi accompagnare da un familiare, o da un amico
o da una persona che comunque l’ha assistito in altri momenti
della sua vita. Se questa persona è un operatore sociale, che ha
seguìto il caso dal punto di vista del servizio sociale, la sua presenza
al colloquio, se desiderata dal cliente, potrà soltanto essere
utile, perché il cliente può viverla come appoggio, come sostegno,
come tramite per manifestare, al nuovo operatore sociale che è il
C.F., alcuni suoi disagi che l’altro operatore sociale già conosce e
che gli è difficile esprimere. Gli stessi punti positivi di sostegno
e di appoggio possono essere rappresentati da un amico o da un
familiare: cioè questa presenza, in quanto scelta liberamente dal
cliente, ha un significato positivo di sicurezza. Durante il trattamento,
il cliente troverà da solo il momento di abbandonarla.
I problemi però più complessi sono quelli del C.F.: abbiamo già
visto altrove in una relazione di colloquio riportata, che il consulente.
parlava di un certo suo imbarazzo di dover sopportare la presenza
di una figlia sedicenne della cliente, mentre parlava con questa dei
rapporti sessuali fra lei e il marito.
Questa problematica, e anche molte altre, possono toccare da vicino
proprio il C.F., il quale può sentirsi a disagio per la presenza di
un’altra persona e non riuscire a gestire questo disagio. Forse non è il
caso di prendere decisioni immediate, ma di rimandarle al secondo o
al terzo colloquio: l’importante è che il consulente avverta immediatamente
il proprio imbarazzo e lo analizzi molto bene.
– E vi può anche essere la situazione, che capita spesso, di una persona
che si presenta con il proprio partner che non è il coniuge,
ma che egli sceglie di avere sempre come accompagnatore,
probabilmente perché la presenza di questa persona lo copre dai
suoi sensi di colpa e da altri tipi di valutazione. Dal punto di vista
obiettivo, questa situazione non presenta nulla da eccepire, ma
può mettere in imbarazzo il C.F. che non sia abbastanza elastico
nel suo modo di prendere in considerazione anche i rapporti extra-
coniugali. Anche in questo caso la situazione è delicata, perché
il rapporto del cliente col suo partner non coniuge può essere
un rapporto valido, importante e vitale, tale da doverlo salvare:
ma può anche darsi che al di sotto ci sia invece, da parte del cliente,
una situazione di inconscia insofferenza per una posizione sociale
che esce dalla norma. Tuttavia il chiarimento di tutte queste
ipotesi appartiene al periodo di trattamento, che non stiamo trattando
in questo capitolo.

Il cliente non parla: si tratta qui di una situazione quanto mai imbarazzante,
 tanto per il cliente, quanto per il C.F. Il cliente può effettivamente
non sapere che cosa dire (specialmente se è stato mandato
al consultorio da un’altra persona o da un altro ente), oppure può
avere fin troppe cose da dire, ma non sapere da che parte cominciare:
e questa è una mancanza momentanea di organizzazione mentale,
che viene superata poco dopo, specialmente se il C.F. saprà fornire
un corretto aiuto per iniziare un dialogo.
Tuttavia vi può essere il cliente che non sa che cosa dire, perché
pressato da molte emozioni: in questi casi, anche il suo comportamento
esterno è particolare e il C.F. non deve lasciarsi sfuggire la
possibilità di una osservazione molto attenta. Il cliente può essere
assolutamente immobile, come paralizzato, può invece cambiare
continuamente di posizione, fare gesti inconsulti, fumare in maniera
non naturale, iniziare il discorso da un commento ai libri o ai mobili
che ha intorno.
La posizione del C.F. deve essere in questi casi molto cauta, e certamente
non deve opporre al silenzio una loquela troppo accentuata
che darebbe fastidio al cliente, un silenzio analogo a quello del
cliente, ma sereno, tranquillo, non di ansiosa attesa di quello che il
cliente dirà, è in questi casi la formula migliore per aiutare il cliente
a cominciare da qualche parte ad esprimersi. Si guardi bene inoltre
il C.F. dal sottolineare il silenzio del cliente, dal volerlo rassicurare
col fatto che il suo silenzio è pressoché naturale, o dal fargli fretta nel
cominciare a esporre il suo problema. È soltanto il silenzio carico di
empatia che il C.F. oppone, che farà notare al cliente di essere appunto
in una situazione di silenzio e gli suggerirà il modo per uscirne.
Naturalmente, quando queste situazioni sono troppo cariche di
emozione, c’è sempre da ipotizzare che ci siano al di sotto dei problemi
molto grossi, o che per lo meno il cliente vive in maniera particolarmente
drammatica. Talvolta un primo colloquio costituito essenzialmente
da silenzi può essere sintomo della necessità – almeno
in un secondo tempo – dell’intervento di uno psicologo. In sede di
primo approccio tuttavia, il C.F. deve immediatamente valutare la
possibilità (possibilità, non necessità) di fare intervenire uno spe-
cialista esterno a un certo punto del rapporto: ma deve anche tenere
presente quale trauma può costituire, per un cliente che non riesce
ad esternare le proprie emozioni, il cambiare terapeuta dopo un po’
di tempo, quando magari con il primo ha stabilito un rapporto di
fiducia. Quante volte un buon rapporto con il C.F. risolve il problema
proprio con mezzi emotivi, molto più di quanto avrebbe potuto fare
un rapporto con mezzi tecnici con uno psicologo!

Trasferimento del cliente
Anche su questo argomento parleremo più ampiamente nel prossimo
capitolo: tuttavia, al momento del primo colloquio, due possono
essere i tipi di trasferimento che il cliente subisce: quando viene
inviato al consultorio da un altro ente con il quale ha già avuto un
certo numero di rapporti e di problemi; o quando, venuto al consultorio,
deve essere immediatamente trasferito ad altro ente o ad altra
persona. Esaminiamo le due situazioni opposte.
Quando il cliente ha già avuto rapporti con un altro ente e viene
inviato al consultorio, il C.F. si trova per solito davanti ad una persona
che gli oppone qualche resistenza. È un momento delicato, ma
che il C.F. impara presto a gestire, per cancellare questo disagio; si
tenga presente che – anche se il C.F. non può accertare immediatamente
la natura del rapporto che questo cliente ha avuto con l’altro
ente (positiva o negativa, rapporto di evoluzione o no, rapporto di
crescita o no) – ha tuttavia la sicurezza di offrire al cliente finalmente
il tipo di aiuto di cui ha bisogno. Capita infatti molte volte che una
persona sia in contatto con vari enti, per problemi assistenziali diversi,
e che soltanto dopo un certo periodo venga finalmente inviato
al consultorio per il suo problema familiare: è evidente che il cliente
nutre, in questi casi, una certa diffidenza e forse una lieve frustrazione
per aver dovuto contattare molte persone, senza mai riuscire ad
approfondire quello che forse era il suo problema più dolente: ma il
C.F. può essere sicuro in questi casi – che, superato il primo momento
di disagio, il cliente si sentirà finalmente a suo agio e nelle mani
della persona giusta; per cui non è difficile recuperare né l’atmosfera
di sfiducia, né quel primo imbarazzo iniziale che può aver dato la
sensazione di far «perdere quota» al rapporto.
C’è però il caso contrario, e cioè quello di dover decidere subito,
in sede di primo colloquio, di trasferire il cliente ad altro ente o ad
un esperto esterno. Questo caso si può presentare quando – dopo
una sommaria esposizione del problema – il C.F. si accorge che non
si tratta di un caso di competenza del consultorio, per cui il cliente
deve essere subito indirizzato ad altro ente o a un esperto esterno
(per esempio, ginecologo, o psicologo, o urologo, o psichiatra). È importante
che il C.F. abbia le idee chiare sul tipo di esperto o di ente
cui inviare il cliente. In tutte e due queste situazioni si ripropone il
discorso della necessità di conoscere le risorse esistenti nella zona,
di averle sensibilizzate ad una collaborazione con il consultorio e di
avere degli esperti egualmente sensibilizzati.
In questi due casi, però (cioè quando il C.F. deve trasferire immediatamente
il caso o ad un esperto o ad un ente), bisogna sottolineare
un aspetto importante del rapporto: è vero che questo rapporto, quasi
sicuramente, resterà unico nella storia del consultorio e in quella
personale del cliente: e proprio per questa unicità il C.F. deve individuare
con agilità e sveltezza quelle caratteristiche del problema che
lo fanno decidere per un «trasferimento» e fare in modo che il cliente
parli il meno possibile, che non gli racconti tutti i particolari della
sua storia, né gli esterni tutte le proprie emozioni. Questo sarebbe
pericoloso per tutti e due i gerenti del rapporto: per il C.F., perché
viene a conoscenza dei particolari di un caso che non potrà seguire
e che quindi comunque disturberà tutto il resto del suo lavoro; e per
il cliente, il quale può illudersi di stabilire con quel consulente un
rapporto che gli sarà utile, e dopo questa illusione è invece rifiutato e
inviato ad altra persona. Quello del creare delle aspettative nel cliente
è la cosa meno rispettosa e meno sociale che un C.F. possa fare, perché
è antieducativa, antiumana, poco etica. Si raccomanda quindi di
fare di tutto per rendersi conto delle caratteristiche del problema nel
più breve tempo possibile e chiarire al cliente la necessità di andare
da altri, prima che fra cliente e C.F. si sia stabilito un qualunque tipo
di rapporto emotivo.

Strumentalizzazione del consultorio
Abbiamo già parlato altrove di quel tipo di strumentalizzazione
reciproca, che si crea in qualunque rapporto umano, e che è il punto
di partenza per una relazione d’aiuto. Qui vogliamo parlare invece di
clienti che si presentano con la precisa idea di utilizzare il consultorio
matrimoniale ai propri scopi, probabilmente perché non sanno
esattamente che cosa il consultorio può fare per loro. Darò due o tre
esempi di casi che mi sono capitati:
– un marito viene al consultorio a chiedere che il C.F. si rechi nella
sua abitazione e faccia una predica alla moglie, insegnandole
come si deve comportare col marito, come deve essere sottomessa,
come deve tenere ila ordine la casa, ecc.;
– una signora che ha una relazione extra-coniugale e che ha deciso,
con il nuovo partner, di rompere il matrimonio, viene al consultorio
per chiedere l’intervento di qualcuno, che trasmetta al marito
la sua decisione di iniziare una causa di separazione, perché
lei non ha il coraggio di esporre la situazione;
– una cliente viene al consultorio chiedendo che si mandi a casa
loro un medico per obbligare il marito a fare una visita particolare,
data una impotenza progressiva da lui dimostrata nei rapporti
sessuali.
Come questi tre casi, ce ne possono essere infiniti altri.
Non è difficile per il C.F. chiarire immediatamente che il consultorio
non può intervenire in questi modi o subdoli o autoritari, e
comunque non certo di servizio sociale, perché i suoi compiti sono
altri. Per solito i clienti che vengono a chiedere questi interventi sono
persone molto intelligenti, furbe, intuitive, che sanno benissimo di
non poter utilizzare un ente pubblico per questi scopi: comunque
hanno tentato.
Quindi non c’è il pericolo di fare delle gaffe nel chiarire esatta-
mente i limiti di intervento di un consultorio matrimoniale. I pericoli
sono di tutt’altro genere e sono costituiti dal fatto che, specialmente
un C.F. alle sue prime esperienze, può proprio essere tentato di accettare
questo rapporto, perché… sarebbe tanto bello rendersi utili,
tanto più che un cliente lo richiede. È questa molla interiore che può
essere pericolosa e che bisogna imparare a controllare fin dall’inizio:
ci sono delle persone che sarebbero disposte a fornire un aiuto di
questo genere, ma evidentemente non può trattarsi di un consulente
matrimoniale, all’interno di un consultorio, che è un ente pubblico e
che ha dei precisi compiti.

La prima versione dei fatti
Non ci pare inutile dedicare le ultime parole di questo capitolo
all’importanza della «prima versione dei fatti» quale appare nel primo
contatto fra il cliente e il C.F. Dare troppa importanza al contenuto
di ciò che il cliente espone è pericoloso; ma può esserlo altrettanto
darne troppo poca.
Infatti, sopra valutare quanto il cliente ci dice nel primo colloquio
può portare a decidere di seguire il trattamento in un modo piuttosto
che in un altro, e spesso in un modo che si rivelerà inadeguato al
caso. Bisogna inoltre considerare che il contenuto di questo primo
incontro è quasi sempre (salvo richieste di interventi urgenti e concreti)
di natura emozionale, per cui è infinitamente più importante
osservare come il cliente espone la sua situazione, dando per scontato
che – se si tratta di un cliente normale –esporrà i fatti in maniera
imperfetta, spesso poco logica, ritornando indietro nella storia delle
cose avvenute. Infatti, un cliente che si riveli troppo lucido nel modo
di esporre la sua situazione può sempre far pensare a una persona
che voglia strumentalizzare il consultorio, oppure che non abbia
emozioni e che quindi sia da osservare molto bene per accertarsi che
non sia patologica.
Consideriamo anche che nel corso dei prossimi colloqui altri fatti
emergeranno e ogni cosa prenderà il suo giusto posto nel mosaico.

Un’altra cosa da tenere presente è di non decidere per nessuna
linea di trattamento prima di avere visto l’altro partner di coppia,
perché soltanto così si giustifica l’intervento del C.F. diretto su una
coppia e non su una sola persona. Sottolineo ancora questo punto,
perché il momento della scelta del trattamento si è sempre tentati di
farlo coincidere con la fine del primo colloquio, cioè quando non si
hanno abbastanza elementi per orientarsi e per decidere, e quando
tanto il cliente che il C.F. sono sotto l’emozione del loro primo incontro.
Inoltre, bisogna ricordare che talvolta il coniuge che viene ad
esporre una situazione di disagio è proprio quello fra i due più problematico,
anche se non lo sa.
D’altra parte anche dare importanza minima alla «prima versione
dei fatti» può essere altrettanto pericoloso, perché rischia di far
sottovalutare il cliente da parte del C.F. (o che il cliente si senta sottovalutato),
ma soprattutto c’è il pericolo di perdere di vista la parti,
colare ottica con la quale il cliente ci ha esposto la situazione al momento
del primo approccio: infatti, la valutazione di questa ottica
sarà molto utile in un secondo momento, sia al cliente che al C.F., per
confrontare i punti di partenza con i punti di arrivo.

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