TANTO RUMORE PER NULLA!
di Maurizio Qualiano
Una sentenza di merito del Tribunale di Milano (n.10289/2011) ha recentemente agitato le acque del mondo professionale degli Psicologi e dei Counselor ed anche il sonno di molti professionisti.
Sono apparsi grandi titoli sui giornali web e sui siti delle categorie professionali interessate, dal vago sapore rivendicativo e bellicoso da una parte e difensivo e protettivo dall’altra.
I giudici milanesi si sono occupati del Codice deontologico degli Psicologi e dell’applicazione dell’art.21 la cui interpretazione era stata messa in dubbio da alcune Associazioni e Scuole professionali di Counselling. (L’articolo 21 recita: Lo psicologo, a salvaguardia dell’utenza e della professione, è tenuto a non insegnare l’uso di strumenti conoscitivi e di intervento riservati alla professione di psicologo, a soggetti estranei alla professione stessa, anche qualora insegni a tali soggetti discipline psicologiche.), I giudici hanno deciso per la validità di tale articolo, affermando la legittimità dell’uso dello strumento disciplinare nei confronti di psicologi che insegnino ad estranei alla professione l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento propri dell’attività degli psicologi e degli psicoterapeuti.
Da qui si è scatenato un tam tam mediatico che ha raggiunto livelli elettrizzati e, a dir poco trionfalistici.
Abbiamo letto nei siti di psicologi articoli con titoli roboanti come: Il Counselling torna in mano agli Psicologi. Vinta una battaglia storica! Quella di Milano è una sentenza storica, si legge, in cui i giudici milanesi, finalmente, chiariscono fino in fondo che l’articolo 21 del codice Deontologico degli Psicologi (che persegue chi, da Psicologo, istruisce all’utilizzo di strumenti operativi e conoscitivi propri della propria professione persone che non hanno né seguito il corso di studi universitari né superato l’Esame di Stato) tutela gli utenti dall’uso sconsiderato di strumenti psicologici e impedisce ad una professione non riconosciuta come quella dei cosiddetti counselor di esercitare attività da Psicologi.
Anche l’Ordine degli Psicologi della Lombardia (diciamo il vincitore della diatriba legale), si è fatto sentire con un comunicato stampa nel cui titolo campeggiava questa frase: Il pensiero è libero, ma non l’esercizio di una professione! Questa sentenza, continua, è probabilmente la più importante per la nostra professione che sia mai stata scritta, per la chiarezza di visione generale della professione dimostrata e per le conseguenze che ne derivano. L’articolo 21 del Codice Deontologico degli Psicologi tutela gli utenti dall’uso sconsiderato di strumenti psicologici e garantisce i cittadini disciplinando che l’insegnamento dell’uso degli strumenti psicologici spetti solo alle persone iscritte alla professione e non agli estranei, in un’ottica di duplice tutela dell’utenza: tutela da soggetti non qualificati che possono utilizzare imprudentemente strumenti riservati alla professione di psicologi arrecando danno; tutela dell’efficacia della terapia a vantaggio dell’utenza. Gli atti tipici della professione di Psicologo sono prestazioni professionali riservate (colloquio, test, profili e altro) e come tali non possono essere insegnati a tutti; pertanto l’insegnamento dell’uso degli strumenti a persone estranee equivale in tutto e per tutto a facilitare l’esercizio abusivo della professione, ciò che la legge e il codice deontologico (art. 9) tutelano direttamente. Quindi l’insegnamento del counselling facilita la commissione di un reato.
…e così via, nel web troviamo tantissime dichiarazioni analoghe di commento a questa sentenza e di soddisfazione per il suo contenuto.
Ma i Consulenti Familiari come sono interessati dalla decisione giurisprudenziale e quali effetti potranno avere sulla categoria professionale le decisioni prese dal Tribunale civile di Milano?
Vediamo prima di chiarire l’ambito in cui è stata emessa questa ‘preziosa sentenza’.
Alcune Scuole e Associazioni di counselling hanno citato in giudizio l’Ordine degli Psicologi della Lombardia chiedendo l’annullamento di due delibere dell’Ordine, che ribadivano l’applicabilità, in sede disciplinare, dell’articolo 21 del codice deontologico degli psicologi e la conseguente irrogazione di sanzioni disciplinari agli psicologi che insegnavano presso le scuole di Counselling.
Il Tribunale di Milano ha rigettato il ricorso presentato dai Counselor motivando che: "l’insegnamento dell’uso degli strumenti a persone estranee equivale in tutto e per tutto a facilitare l’esercizio abusivo della professione, ciò che la legge e il codice deontologico (art. 9) tutelano direttamente prescrivendo comportamenti attivi per impedirlo...e continua . Sarebbe davvero grave se si insegnasse ai terzi l’uso degli strumenti conoscitivi, in un ambito professionale come quello riservato allo Psicologo che richiede, se possibile, una sensibilità ancora maggiore, trattandosi della personalità di ciascun individuo e la necessità di un lavoro di ristrutturazione dell’intimo e di riorganizzazione del sistema cognitivo-emotivo."
Pertanto, detta sentenza giustamente afferma la legittimità dell’uso dello strumento disciplinare nei confronti di psicologi che insegnino, ad estranei alla professione, l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento propri dell’attività degli psicologi e degli psicoterapeuti.
Fin qui non possiamo non essere d’accordo con l’iter logico seguito dalla magistratura, secondo cui, se vi è una professione con riserva e regolamentazione di legge, nessun appartenente ad essa può insegnare gli atti della professione a chi non ha i titoli richiesti per far parte di quella professione. Come se un medico chirurgo insegnasse all’infermiere ferrista di sala operatoria a tagliare un’appendice, o l’ingegnere progettista istruisse il geometra a fare i calcoli del cemento armato per costruire ponti!
Sembra quasi ovvia questa considerazione per cui lo psicologo non può insegnare ad altri, che non sia psicologo, tutti o alcuni dei “trucchi del mestiere”. Quindi, per quello che ci è dato di capire, la sentenza si rivolge soprattutto agli appartenenti all’Ordine degli Psicologi che, in maniera, possiamo dire, ‘indebita’, fanno formazione psicologica fuori degli ambiti della propria professione.
E allora cosa c’entrano i Counselor e le professioni affini?
C’entrano perché gli Psicologi hanno interpretato le motivazioni della sentenza come una legittimazione a considerare, come strumenti a loro riservati, alcuni atti professionali generici, come il colloquio e la relazione d’aiuto. Abbiamo letto infatti: “Vinta una battaglia storica! Il Counselling torna in mano agli Psicologi”.
Nella stessa sentenza, però, si fa riferimento alla necessità di mantenere uno "spartiacque tra atti tipici della professione ed atti riferibili a tutti". E’ qui l’aspetto fondamentale della decisione giudiziaria che ci riguarda, perchè è necessario ed indispensabile definire quali attività devono intendersi riservate agli psicologi e quali possono essere svolte anche da persone che non sono psicologi.
Come fa l’Ordine degli psicologi ad annoverare tra gli atti tipici della professione di psicologo, e per tali riservati dalla legge, oltre la formulazione di test e profili anche i ‘colloqui’ e la relazione d’aiuto? In base a quale normativa il colloquio professionista-cliente è appannaggio esclusivo dello psicologo?
Su questi aspetti dell’interpretazione della sentenza, fatta dagli Psicologi, sentiamo che qualcosa stride!
La risposta non può essere cercata se non nella legge n.56 del 18 febbraio 1989, istitutiva dell’Ordinamento della professione di psicologo, secondo cui "La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito"(art.1).
La declaratoria delle attività è tutta indirizzata al termine “in ambito psicologico”, per cui gli atti tipici dello psicologo sono la somministrazione di test psicologici, la definizione di profili psicologici, l’effettuazione di “colloqui psicologici”.
L’effetto distorto che l’Ordine degli Psicologi vorrebbe dare al contenuto della sentenza milanese sarebbe quello di considerare riservato a sé tutta l’attività emotiva, relazionale, cognitiva ed educativa.
E’ una tendenza frequente quella di allargare i propri ambiti a discapito di altri e di interpretare, come ha fatto l’Ordine degli psicologi del Piemonte nel 2010, anche la legge istitutiva nel senso che essa conceda un “ambito di attività molto ampio, che abilita lo “psicologo” ad operare efficacemente in moltissimi settori: clinico, sociale, psicologia del lavoro, benessere psico-fisico e crescita personale (crescita emotiva, cognitiva, relazionale, etc.). Ciò vale, appunto, per lo “psicologo”, che abbia conseguito l’abilitazione a svolgere la propria attività in ambito psicologico mediante l’esame di Stato, ed è, quindi, ex lege riservato a lui”. Tale interpretazione è stata criticata anche dalla Suprema Corte di Cassazione che ha fatto presente che nessuna professione può vantare l’esclusiva sulla sfera emotiva e cognitiva dell’uomo ed, in pratica, godere del privilegio di una riserva di legge su tutto lo scibile umano .
Dunque alla luce del principio di causa ed effetto, qualora la sentenza in questione non venisse modificata nei successivi gradi di giudizio, si verificherebbe questo scenario:
1) La professione di Counselor verrebbe ufficialmente riconosciuta dalla magistratura come esistente, autonoma, indipendente, rispetto alla professione di psicologo (infatti tale sentenza nulla dice nè potrebbe dire circa la non legalità della professione di Counselor)..
2) I Counselor ovviamente continueranno a studiare psicologia, ma i docenti potrebbero non essere più psicologi. Saranno altri: medici psicoterapeuti, psichiatri o altri counselor.
Si perché la sentenza parla di strumenti tipici della professione e non dei principi fondamentali e dei criteri generali della materia. (Questo vuol dire, ad esempio, che un insegnante di liceo, anche se laureato in matematica teoretica, insegnerà ai suoi studenti le equazioni di secondo grado, e non altro!)
3) I Consulenti Familiari continueranno la loro attività mediante i colloqui relazionali e socio-educativi, e nelle scuole di formazione per Consulenti si continuerà ad insegnare consulenza familiare e principi di psicologia!. Principi teorici, naturalmente, perché non è consentito e non interessa ai Consulenti Familiari fare diagnosi, test o occuparsi di patologie. Ma il Consulente Familiare non si può esimere dalla conoscenza, sotto il profilo teorico-scientifico, delle sindromi e delle patologie, poiché tale conoscenza gli permetterà di poter inviare un cliente al professionista più appropriato (Medico Psichiatra Psicoterapeuta e/o Psicologo Psicoterapeuta), nel momento in cui si presenti la necessità.
M.Q.
di Maurizio Qualiano
Una sentenza di merito del Tribunale di Milano (n.10289/2011) ha recentemente agitato le acque del mondo professionale degli Psicologi e dei Counselor ed anche il sonno di molti professionisti.
Sono apparsi grandi titoli sui giornali web e sui siti delle categorie professionali interessate, dal vago sapore rivendicativo e bellicoso da una parte e difensivo e protettivo dall’altra.
I giudici milanesi si sono occupati del Codice deontologico degli Psicologi e dell’applicazione dell’art.21 la cui interpretazione era stata messa in dubbio da alcune Associazioni e Scuole professionali di Counselling. (L’articolo 21 recita: Lo psicologo, a salvaguardia dell’utenza e della professione, è tenuto a non insegnare l’uso di strumenti conoscitivi e di intervento riservati alla professione di psicologo, a soggetti estranei alla professione stessa, anche qualora insegni a tali soggetti discipline psicologiche.), I giudici hanno deciso per la validità di tale articolo, affermando la legittimità dell’uso dello strumento disciplinare nei confronti di psicologi che insegnino ad estranei alla professione l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento propri dell’attività degli psicologi e degli psicoterapeuti.
Da qui si è scatenato un tam tam mediatico che ha raggiunto livelli elettrizzati e, a dir poco trionfalistici.
Abbiamo letto nei siti di psicologi articoli con titoli roboanti come: Il Counselling torna in mano agli Psicologi. Vinta una battaglia storica! Quella di Milano è una sentenza storica, si legge, in cui i giudici milanesi, finalmente, chiariscono fino in fondo che l’articolo 21 del codice Deontologico degli Psicologi (che persegue chi, da Psicologo, istruisce all’utilizzo di strumenti operativi e conoscitivi propri della propria professione persone che non hanno né seguito il corso di studi universitari né superato l’Esame di Stato) tutela gli utenti dall’uso sconsiderato di strumenti psicologici e impedisce ad una professione non riconosciuta come quella dei cosiddetti counselor di esercitare attività da Psicologi.
Anche l’Ordine degli Psicologi della Lombardia (diciamo il vincitore della diatriba legale), si è fatto sentire con un comunicato stampa nel cui titolo campeggiava questa frase: Il pensiero è libero, ma non l’esercizio di una professione! Questa sentenza, continua, è probabilmente la più importante per la nostra professione che sia mai stata scritta, per la chiarezza di visione generale della professione dimostrata e per le conseguenze che ne derivano. L’articolo 21 del Codice Deontologico degli Psicologi tutela gli utenti dall’uso sconsiderato di strumenti psicologici e garantisce i cittadini disciplinando che l’insegnamento dell’uso degli strumenti psicologici spetti solo alle persone iscritte alla professione e non agli estranei, in un’ottica di duplice tutela dell’utenza: tutela da soggetti non qualificati che possono utilizzare imprudentemente strumenti riservati alla professione di psicologi arrecando danno; tutela dell’efficacia della terapia a vantaggio dell’utenza. Gli atti tipici della professione di Psicologo sono prestazioni professionali riservate (colloquio, test, profili e altro) e come tali non possono essere insegnati a tutti; pertanto l’insegnamento dell’uso degli strumenti a persone estranee equivale in tutto e per tutto a facilitare l’esercizio abusivo della professione, ciò che la legge e il codice deontologico (art. 9) tutelano direttamente. Quindi l’insegnamento del counselling facilita la commissione di un reato.
…e così via, nel web troviamo tantissime dichiarazioni analoghe di commento a questa sentenza e di soddisfazione per il suo contenuto.
Ma i Consulenti Familiari come sono interessati dalla decisione giurisprudenziale e quali effetti potranno avere sulla categoria professionale le decisioni prese dal Tribunale civile di Milano?
Vediamo prima di chiarire l’ambito in cui è stata emessa questa ‘preziosa sentenza’.
Alcune Scuole e Associazioni di counselling hanno citato in giudizio l’Ordine degli Psicologi della Lombardia chiedendo l’annullamento di due delibere dell’Ordine, che ribadivano l’applicabilità, in sede disciplinare, dell’articolo 21 del codice deontologico degli psicologi e la conseguente irrogazione di sanzioni disciplinari agli psicologi che insegnavano presso le scuole di Counselling.
Il Tribunale di Milano ha rigettato il ricorso presentato dai Counselor motivando che: "l’insegnamento dell’uso degli strumenti a persone estranee equivale in tutto e per tutto a facilitare l’esercizio abusivo della professione, ciò che la legge e il codice deontologico (art. 9) tutelano direttamente prescrivendo comportamenti attivi per impedirlo...e continua . Sarebbe davvero grave se si insegnasse ai terzi l’uso degli strumenti conoscitivi, in un ambito professionale come quello riservato allo Psicologo che richiede, se possibile, una sensibilità ancora maggiore, trattandosi della personalità di ciascun individuo e la necessità di un lavoro di ristrutturazione dell’intimo e di riorganizzazione del sistema cognitivo-emotivo."
Pertanto, detta sentenza giustamente afferma la legittimità dell’uso dello strumento disciplinare nei confronti di psicologi che insegnino, ad estranei alla professione, l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento propri dell’attività degli psicologi e degli psicoterapeuti.
Fin qui non possiamo non essere d’accordo con l’iter logico seguito dalla magistratura, secondo cui, se vi è una professione con riserva e regolamentazione di legge, nessun appartenente ad essa può insegnare gli atti della professione a chi non ha i titoli richiesti per far parte di quella professione. Come se un medico chirurgo insegnasse all’infermiere ferrista di sala operatoria a tagliare un’appendice, o l’ingegnere progettista istruisse il geometra a fare i calcoli del cemento armato per costruire ponti!
Sembra quasi ovvia questa considerazione per cui lo psicologo non può insegnare ad altri, che non sia psicologo, tutti o alcuni dei “trucchi del mestiere”. Quindi, per quello che ci è dato di capire, la sentenza si rivolge soprattutto agli appartenenti all’Ordine degli Psicologi che, in maniera, possiamo dire, ‘indebita’, fanno formazione psicologica fuori degli ambiti della propria professione.
E allora cosa c’entrano i Counselor e le professioni affini?
C’entrano perché gli Psicologi hanno interpretato le motivazioni della sentenza come una legittimazione a considerare, come strumenti a loro riservati, alcuni atti professionali generici, come il colloquio e la relazione d’aiuto. Abbiamo letto infatti: “Vinta una battaglia storica! Il Counselling torna in mano agli Psicologi”.
Nella stessa sentenza, però, si fa riferimento alla necessità di mantenere uno "spartiacque tra atti tipici della professione ed atti riferibili a tutti". E’ qui l’aspetto fondamentale della decisione giudiziaria che ci riguarda, perchè è necessario ed indispensabile definire quali attività devono intendersi riservate agli psicologi e quali possono essere svolte anche da persone che non sono psicologi.
Come fa l’Ordine degli psicologi ad annoverare tra gli atti tipici della professione di psicologo, e per tali riservati dalla legge, oltre la formulazione di test e profili anche i ‘colloqui’ e la relazione d’aiuto? In base a quale normativa il colloquio professionista-cliente è appannaggio esclusivo dello psicologo?
Su questi aspetti dell’interpretazione della sentenza, fatta dagli Psicologi, sentiamo che qualcosa stride!
La risposta non può essere cercata se non nella legge n.56 del 18 febbraio 1989, istitutiva dell’Ordinamento della professione di psicologo, secondo cui "La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito"(art.1).
La declaratoria delle attività è tutta indirizzata al termine “in ambito psicologico”, per cui gli atti tipici dello psicologo sono la somministrazione di test psicologici, la definizione di profili psicologici, l’effettuazione di “colloqui psicologici”.
L’effetto distorto che l’Ordine degli Psicologi vorrebbe dare al contenuto della sentenza milanese sarebbe quello di considerare riservato a sé tutta l’attività emotiva, relazionale, cognitiva ed educativa.
E’ una tendenza frequente quella di allargare i propri ambiti a discapito di altri e di interpretare, come ha fatto l’Ordine degli psicologi del Piemonte nel 2010, anche la legge istitutiva nel senso che essa conceda un “ambito di attività molto ampio, che abilita lo “psicologo” ad operare efficacemente in moltissimi settori: clinico, sociale, psicologia del lavoro, benessere psico-fisico e crescita personale (crescita emotiva, cognitiva, relazionale, etc.). Ciò vale, appunto, per lo “psicologo”, che abbia conseguito l’abilitazione a svolgere la propria attività in ambito psicologico mediante l’esame di Stato, ed è, quindi, ex lege riservato a lui”. Tale interpretazione è stata criticata anche dalla Suprema Corte di Cassazione che ha fatto presente che nessuna professione può vantare l’esclusiva sulla sfera emotiva e cognitiva dell’uomo ed, in pratica, godere del privilegio di una riserva di legge su tutto lo scibile umano .
Dunque alla luce del principio di causa ed effetto, qualora la sentenza in questione non venisse modificata nei successivi gradi di giudizio, si verificherebbe questo scenario:
1) La professione di Counselor verrebbe ufficialmente riconosciuta dalla magistratura come esistente, autonoma, indipendente, rispetto alla professione di psicologo (infatti tale sentenza nulla dice nè potrebbe dire circa la non legalità della professione di Counselor)..
2) I Counselor ovviamente continueranno a studiare psicologia, ma i docenti potrebbero non essere più psicologi. Saranno altri: medici psicoterapeuti, psichiatri o altri counselor.
Si perché la sentenza parla di strumenti tipici della professione e non dei principi fondamentali e dei criteri generali della materia. (Questo vuol dire, ad esempio, che un insegnante di liceo, anche se laureato in matematica teoretica, insegnerà ai suoi studenti le equazioni di secondo grado, e non altro!)
3) I Consulenti Familiari continueranno la loro attività mediante i colloqui relazionali e socio-educativi, e nelle scuole di formazione per Consulenti si continuerà ad insegnare consulenza familiare e principi di psicologia!. Principi teorici, naturalmente, perché non è consentito e non interessa ai Consulenti Familiari fare diagnosi, test o occuparsi di patologie. Ma il Consulente Familiare non si può esimere dalla conoscenza, sotto il profilo teorico-scientifico, delle sindromi e delle patologie, poiché tale conoscenza gli permetterà di poter inviare un cliente al professionista più appropriato (Medico Psichiatra Psicoterapeuta e/o Psicologo Psicoterapeuta), nel momento in cui si presenti la necessità.
M.Q.
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